Quel villaggio di cowboy tra il Tevere e Barcellona

Dal nostro inviato al festival Riccardo Tavani

Goodbye Ringo, goodbye Festival del Cinema Español! Si è conclusa ieri, al Cinema Farnese, la dodicesima edizione di questa rassegna, sempre più apprezzata, amata dal pubblico romano. Ora il Festival si sposta a Torino, al Salone del Libro, dedicato quest’anno non semplicemente alla Spagna, ma a tutti i paesi di lingua spagnola nel mondo. Poi la cine-movida compirà un vero e proprio giro d’Italia, da Nord a Sud, fino all’autunno prossimo.

L’ultimo film dell’ultima serata è stato un goodbye, un adiós, che è in realtà un bentornato, unwelcome back, una benvenida de nuevo. Un bentornato al cinema western in salsa italiana, il celebre spaghetti western. Un genere che ha lasciato un solco profondo nella storia del cinema mondiale. Esso, infatti, ancora oggi continua esplicitamente a ispirare  registi come Quentin Tarantino, e non solo nei suoi Django Unchained, e The Hateful Eight. Anche il regista francese Jacques Audiard ha dichiarato che per il suo TheSisters Brothers, in questi giorni nelle sale italiane, non ha potuto prescindere dalla grande lezione di Sergio Leone.

Nel 1964 i Fratelli Balcázar edificarono a dieci chilometri da Barcellona un villaggio western chiamato Esplugas City. Fatto non solo di mere facciate d’edifici ma anche d’interni, quali il saloon, la banca e la chiesa. Divenne immediatamente una delle location preferite degli spaghetti western. In solo sette anni vi furono girati sessanta film in coproduzione italo spagnola. Vogliamo ricordare che anche a pochi chilometri da Roma, sulla Via Tiburtina, in località Settecamini, fu edificato un più piccolo villaggio western, dove l’organizzatore è Luigi Mannini, e gira, tra gli altri, anche Sergio Leone.  Per descrivere la febbrile attività di quegli anni anche sui set italiani riferisce il sito Spaghetti Western Database: “Si girano film western ovunque tra Roma e provincia, a Villa Mussolini, in Sardegna, sui monti di Civitavecchia. Ovunque le località si affollano, i set si moltiplicano, le troupe si accavallano. Spesso si devono interrompere le riprese, perché nell’inquadratura sono improvvisamente entrati pistoleri a cavallo di un altro film”.

Nel film documentario Goodbye Ringo, di Pepe Marzo, ce lo racconta Maurizio Amati, figlio di Edmondo, uno dei maggiori produttori di quella ricca stagione del cinema italiano. Gli accordi di coproduzione si facevano a voce, sul filo del telefono che correva tra Roma e Barcellona, e funzionavano meglio che fossero stati redatti davanti a un notaio. Quando si riattaccava la cornetta, il set a Esplugas City partiva immediatamente, ed erano talmente tante le coproduzioni che bisognava stabilire i turni per le varie location del villaggio. Il regista attinge molte immagini di repertorio dall’archivio storico di Cinecittà, e l’Istituto Luce, infatti, è uno dei produttori del documentario, insieme a Exit Med!a, e agli spagnoli TV3 – Televisió de Catalunya, Victor Manuel Fornies, Aragón. Exit Med!a è anche il distributore in Italia. Dunque anche questa è una coproduzione italo-spagnola, proprio come quelle dei film girati a Esplugas City che qui si raccontano.

La voce narrante che tiene insieme i vari aspetti è quella di Enzo G. Castellari, al secolo Enzo Girolami, uno dei registi di maggior spicco di western all’italiana. Suo fratello Romolo, con il cognome-pseudonimo di Guerrieri, è stato anche lui autore western e ci porta qui la sua testimonianza sull’atmosfera di quei convulsi, magnifici set barcellonesi. Tra il 1966 e il 1967, infatti, gira uno dietro tre film: 7 magnifiche pistole,Johnny Yuma, 10.000 dollari per un massacro.

Goodbye Ringo, poi, fa rivivere immagini di Giuliano Gemma, clips di film di Duccio Tessari (Il ritorno di Ringo, 1965), Tinto Brass (Yankee, 1966), e un’intensa testimonianza – che è anche una delle sue ultime apparizioni sullo schermo – di Giorgio Capitani. Con lo pseudonimo di George Hoolloway, lui girò a Esplugas City Ognuno per sé, ossia – nella versione spagnola Los Profesionales del oro. Pellicola, però, che in Italia fu scarsamente vista, perché la casa produttrice nel frattempo era andata fallita e le copie in circolazione furono sequestrate dai creditori. Capitani, però, dice una cosa decisiva. In quel film, racconta, aveva potuto dare uno sfondo psicologico ai personaggi, cosa che prima non era possibile nel genere western. Anche in America, soprattutto grazie ai film di Sam Peckinpah, questo il genere aveva operato tale cruciale passaggio. Il western classico, infatti, aveva rappresentato fino a quel momento una forma di epica della modernità. Nell’epica l’eroe non ha sfondo psicologico perché combatte, trionfa o muore in nome di un intero popolo, comunità, villaggio. La sua è una figura collettiva, e rappresenta un destino collettivo. A partire dagli anni ’60 del secolo scorso, invece, l’eroe è impastato di polvere, fango, interesse, istinti, bramosie di affermazione personale, denaro. Ha un suo preciso e anche controverso profilo psicologico e lo getta nella lurida battaglia per la sua sopravvivenza. E questa nuova chiave lo rende più interessante alla sensibilità contemporanea.

Esplugas City fu realmente bruciata, fatta esplodere, rasa al suolo dai suoi costruttori e proprietari, i Fratelli Balcázar, come impressionante, realistica scena finale dell’ultimo film che vi fu girato. Il regime dittatoriale di Francisco Franco, infatti, aveva deciso che il villaggio doveva essere rimosso, perché offriva ai turisti un’immagine triviale della Spagna.

Tra le preziose testimonianze che reca il film ce n’è una del tutto particolare. È quella di uno dei capitani di più lungo corso delle cabine di proiezione cinematografiche. Non solo in Italia, ma in tutta Europa. Si tratta di Gianni Tittozzi, dal 1975 proiezionista del Cinema Farnese. Ha cominciato, però, all’età di sedici anni al Cinema Italia, a Tivoli,  e da quel momento non ha mai smesso di proiettare film. Tra essi tutta l’epopea del genere western italiano e mondiale. Questo film di Pere Marzo gli dedica alcune scene in cui ancora oggi – a settantanove anni – Tittozzi mostra tutta la sua agile maestria nel montare, smontare, far passare dentro gli ingranaggi e gli obiettivi di un vecchio proiettore le pellicole a 35 millimetri di una volta. Alla fine della proiezione, il pubblico lo ha ringraziato con un lungo, strameritato applauso. Si unisce quello di Stampa Critica: grazie, Gianni.

 

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