Io, archeologo

Portata sul grande schermo dalla celebre saga di Indiana Jones o di Lara Croft in “Tomb Raider”, dove spesso sorpassa il limite della legalità, coinvolta in duelli, colpi scena e furti di preziosi reperti, in realtà la figura dell’archeologo è ben diversa da quella narrata dalle pellicole holliwoodiane.
Proveremo a conoscerla meglio con Luca, giovane archeologo che per inseguire il suo sogno ha lasciato la sua regione, la Sardegna, e si è trasferito a Roma.
Lo incontro in un bar nei pressi del Colosseo. Quale luogo migliore per una chiacchierata del genere?
Ci sediamo e la prima cosa che mi viene spontaneo chiedere è che cosa lo abbia spinto a scegliere questa professione.
“La passione per l’antico e per la storia” – dice- “mi accompagna fin da bambino, quando le vicende degli eroi e della mitologia greca mettevano in moto la mia immaginazione. Seguivo i documentari in televisione e leggevo molti libri. Alla fine della terza media maturai la mia decisione: sarei stato un archeologo. Ricordo ancora il momento in cui mi rivolsi a mia madre chiedendo quale indirizzo di scuola superiore avrei dovuto prendere per realizzare questo sogno. Rispose che il liceo classico era la scelta obbligata e così mi iscrissi.
Il mio interesse si è sempre rivolto al mondo greco-romano ma in Sardegna il mondo accademico è rivolto maggiormente al periodo nuragico o punico. Perciò, alla fine del liceo, mi sono trasferito a Roma”.
Gli chiedo se anche film come Indiana Jones abbiano influito sulla sua scelta, ma lui si mette a ridere.
“A parte che non ho mai impugnato una frusta. Ma ricordo con divertimento la prima frase che la professoressa ci disse al corso di Metodologia della Ricerca: <<Se pensate che fare l’archeologo significhi fare Indiana Jones, vi consiglio di cambiare studi>>. E aveva ragione, niente di più diverso. Archeologia significa dedizione continua, fatica non solo fisica ma anche mentale, nonché nottate svegli, il più delle volte a redigere quaderni di scavo. Se non senti questa professione nel sangue, non puoi fare questo lavoro”.
Gli chiedo quali scavi ricorda con più emozione.
“Sicuramente tra i più stimolanti c’e quello a cui ho partecipato con l’università alle pendici del Palatino, proprio qui vicino. Anzi ti racconto un aneddoto avvenuto proprio in questo bar in quel periodo. Alla pausa pranzo venni qui con alcuni colleghi per un caffè e il proprietario si rivolse a noi con tono amichevole, quasi fossimo suoi amici e volesse offrirci il caffè. Eravamo impolverati e con i caschi in testa. Ci chiese come procedevano i lavori e dissi che il gran caldo (eravamo ai primi di settembre) non aiutava. Lui perplesso disse che nelle gallerie sotterranee non arriva il sole. Così capì che ci aveva scambiato per gli operai della metropolitana. Gli spiegai che eravamo archeologi e il suo animo si raffreddò tutto d’un tratto. Accennò un lieve sorriso e si allontanò”.
Sospira, poi riprende il discorso.
“Il problema purtroppo è che molti ci vedono come quelli che fermano per mesi o anni importanti opere pubbliche perché ritrovano un vaso o un pezzo di statua. La gente, mi spiace dirlo, ma spesso se ne frega della cultura e del patrimonio. Non voglio dire che la città non debba andare avanti, ma bisognerebbe trovare il giusto equilibrio tra tutela e lavori pubblici. Purtroppo la burocrazia non aiuta in questo senso”.
Gli chiedo come ha proseguito dopo l’università.
“A studi conclusi hai due strade: la carriera universitaria o lo scavo. Ho scelto la seconda. Ho iniziato a mandare curriculum a diverse cooperative ma non con i riscontri che speravo. Oggi, chi vuole essere archeologo da campo, ha molto spesso davanti l’unica opzione di lavorare per le cooperative che forniscono archeologi alle società che si occupano di lavori stradali. Attualmente faccio sorveglianza archeologica per una cooperativa. Seguo gli operai: se durante i lavori dovesse emergere un qualsiasi reperto, ho il compito di annotare tutto e allertare chi di competenza”.
Gli domando se è questo il futuro che immaginava.
“Vuoi la verità? No. Certo, spesso la realtà non corrisponde mai ai sogni, ma il nostro lavoro meriterebbe più considerazione. La vita in cooperativa non è facile, non si lavora tutti i giorni e la paga non arriva quasi mai puntuale. Io per esempio ho arretrati per quattro mesi. Non si può certo definire un lavoro stabile. Spero in un colpo di fortuna, essere assunto direttamente, con uno stipendio fisso. Ma al momento tengo duro: voglio rendere fiero di me quel bambino che voleva essere archeologo a tutti i costi”.
Fissa la tazzina del caffè ormai vuota, poi il suo sguardo si perde tra le arcate dell’anfiteatro flavio.
di Fabio Scatolini
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