Salvatore Carnevale: bracciante sindacalista assassinato dalla mafia

Sciara è un paesino in provincia di Palermo. A Sciara all’alba del 16 maggio 1955 successe un fatto di sangue. La vittima fu Salvatore Carnevale, un bracciante agricolo. Non era un bracciante qualunque, Salvatore era anche un sindacalista. Uno che difendeva i più deboli. Uno scomodo nella Sicilia di quel tempo in cui le maestranze non dovevano alzare la testa.

Salvatore Carnevale venne assassinato a colpi di lupara mentre andava al lavoro. I sicari lo uccisero mentre percorreva una polverosa mulattiera. Aveva 31 anni Salvatore e dava fastidio.

Questo bracciante difendeva gli agricoltori, difendeva i loro diritti andando contro gli interessi dei proprietari terrieri. Era molto attivo politicamente nel sindacato e nel movimento contadino. Le lotte contadine sostennero in quel periodo uno scontro con la mafia innescando una sanguinosa reazione. Non era ammesso battersi per il miglioramento delle condizioni di vita, per avere una riforma fondiaria e per avere contratti di lavoro migliori. Non era ammesso toccare gli interessi dei proprietari terrieri e dei mafiosi.

Carnevale fondò nel 1951 la sezione del Partito Socialista Italiano di Sciara, che a quei tempi aveva circa 2800 abitanti, e sempre lì aveva organizzato la Camera del Lavoro. Molto attivo organizzò l’occupazione simbolica di alcuni terreni e per tale fatto venne arrestato. Uscito dal carcere si trasferì in toscana nel paese di Montevarchi. Qui ebbe il modo di conoscere meglio la cultura dei diritti dei lavoratori che gli fortificò ancor di più il carattere di sindacalista.

Tornò in Sicilia nel ’54 cercando di trasferire in quel territorio le sue esperienze e conoscenze apprese in terra toscana. Venne nominato segretario della Lega dei lavoratori edili di Sciara. Riuscì ad ottenere per i suoi compagni di lavoro le paghe arretrate e il rispetto delle otto ore lavorative. Tre giorni dopo questa vittoria, venne assassinato.

Dell’omicidio vennero accusati quattro mafiosi di Sciara tutti dipendenti di una famiglia feudale dell’aristocrazia siciliana, i Notarbartolo. Erano l’amministratore del feudo, il magazziniere, il sorvegliante e il campiere. Quattro sicari per un uomo solo. Faceva proprio paura Salvatore Carnevale.

La mamma di Salvatore, Francesca Serio, si costituì parte civile nel processo e venne rappresentata dal socialista Sandro Pertini che anni più tardi divenne Presidente della Repubblica Italiana e dagli avvocati Nino Taormina e Nino Sorgi anche loro socialisti. Il 21 dicembre del 1961 i quattro imputati furono condannati all’ergastolo. Per ironia nel collegio di difesa degli imputati compariva Giovanni Leone, anche lui anni più avanti divenne Presidente della Repubblica Italiana.

Il 3 febbraio 1965 però in appello e in Cassazione il verdetto di primo grado fu ribaltato e gli imputati assolti per insufficienza di prove.

Francesca Serio la mattina dell’assassinio aveva avuto una premonizione, disse al figlio che usciva di casa “Turiddu, ‘sta notte ho fatto un brutto sogno. Stai attento alla cava, tieni gli occhi aperti!” . Alle 8 del mattino gli arrivo la notizia di un uomo morto sparato. Capì subito che si trattava del figlio.

Ma donna Francesca non perse il coraggio, dopo la morte del figlio accusò i mafiosi e denunciò la complicità delle forze dell’ordine e della magistratura. Fu la prima donna nella Sicilia di quel periodo a rompere il silenzio omertoso denunciando con nomi e cognomi all’Autorità Giudiziaria le persone che per lei erano autori o complici dell’omicidio del figlio.

La madre di Salvatore Carnevale per anni fu un simbolo antimafia. La sua figura ispirò lo scrittore Carlo Levi che raccolse una sua intervista nel libro “Le parole sono pietre” in cui descrisse la determinazione di questa donna a continuare la lotta del figlio seppur nel suo straziante dolore, «E’ una donna di cinquant’anni, ancora giovanile nel corpo snello e nell’aspetto, ancora bella nei neri occhi acuti, nel bianco-bruno colore della pelle, nei neri capelli, nelle bianche labbra sottili, nei denti minuti e taglienti, nelle lunghe mani espressive e parlanti; di una bellezza dura, asciugata, violenta, opaca come una pietra, spietata, apparentemente disumana… Niente altro esiste di lei e per lei se non questo processo che essa istruisce e svolge da sola, seduta nella sua sedia di fianco al letto; il processo del feudo, della condizione servile contadina, il processo della mafia e dello Stato. Così questa donna si è fatta in un giorno: le lacrime non sono più lacrime ma parole, e le parole sono pietre…»

di Eligio Scatolini e Maria De Laurentiis