Il ruolo non dichiarato delle donne nella resistenza

Quando la statua della partigiana Giulia Lombardi, uccisa a 22 anni dai fascisti nel 1944, uno dei pochi monumenti dedicati alla staffetta partigiana e realizzato in legno di noce, venne inaugurata a Vighignolo una frazione di Settimo Milanese, fu una gioia non solo per chi a quella resistenza aveva partecipato ma anche per la sezione dell’ANPI che la volle e la inaugurò.

Voleva essere agli occhi di tutti, uno tra i pochissimi riconoscimenti del ruolo delle donne nella resistenza italiana, di solito trascurato o omesso dalla storiografia e dalle istituzioni

Era il 14 aprile 2019 il giorno in cui si festeggiò l’inaugurazione di questo monumento, eppure nella notte tra il 21 e 22 aprile 2019, la statua venne incendiata.

Un evidente atto provocatorio che si inquadra nelle sempre più inquietanti manifestazioni e iniziative neofasciste che offendono la memoria di chi ha sacrificato la propria giovane vita per la libertà di tutti noi.

Secondo alcune stime le donne che hanno partecipato alla resistenza sono state circa settantamila. Tuttavia dopo la fine della guerra, dal 1948 c’è stato una sorta di silenzio generale, di voluta dimenticanza, una specie di oblio sul ruolo delle donne affinché si normalizzasse la giusta collocazione della figura femminile che proprio durante la guerra aveva sperimentato un’emancipazione che la stava sradicando dai suoi compiti tradizionali.

Molte donne che hanno partecipato alla resistenza non hanno mai chiesto un riconoscimento perché sentivano di aver fatto solo il loro dovere.

Nella maggior parte dei casi le partigiane hanno fatto le staffette: portavano cibo, armi, riviste, materiale di propaganda rischiando la vita, torture e violenze sessuali. Non essendo armate non potevano neanche difendersi.

Altre hanno avuto compiti di protezione dei partigiani: li nascondevano, li curavano, portavano loro i viveri nei nascondigli, si occupavano della loro sopravvivenza. Altre poi, in numero minore, hanno partecipato direttamente alla lotta armata.

Si può tranquillamente dedurre che senza le staffette, non sarebbe stata possibile la resistenza eppure dopo la guerra si poteva essere riconosciute partigiane solo con la partecipazione alla lotta armata per almeno tre mesi all’interno di un gruppo organizzato riconosciuto.

Ma su questo non riconoscimento delle partigiane che fecero le staffette, ci fu un tabù generazionale e culturale, infatti molte di esse non vollero mai nessun tipo di approvazione, riconoscenza o ricompensa in quanto sostenevano di aver fatto solo quello che occorreva fare. A sottolineare come il ruolo di accudire, portare cibo, curare, preoccuparsi della salute e del sostentamento di un uomo (fosse un padre, un marito, un figlio o un partigiano) rientrasse nei compiti assegnati da sempre alla figura femminile.

Ma anche per coloro che parteciparono alla lotta armata non fu semplice. Per loro si innescò un altro tipo di scomoda verità, ossia il tabù delle donne che esercitano la violenza, che ovviamente era molto forte in un contesto culturale tradizionalista come quello italiano. Riconoscere loro la possibilità di esercitare la violenza armata avrebbe significato riconoscere un’uguaglianza di genere.

Solo negli anni novanta, le donne che parteciparono direttamente alla resistenza italiana, anche con ruoli di responsabilità, hanno cominciato a parlarne pubblicamente e, anche grazie al lavoro di molte storiche, ad essere intervistate e a scrivere dei libri e delle memorie. Molte di loro scrissero delle autobiografie tra queste: Libere sempre di Marisa Ombra, Con cuore di donna di Carla Capponi, Portrait di Joyce Lussu, La ragazza di via Orazio di Marisa Musu, Autobiografia di Maria Teresa Regard.

Dirà poi la storica Lunadei: “La memoria è strettamente collegata alle categorie concettuali del momento storico in cui è espressa. E non si può non fare una riflessione su questo processo anche collettivo che ha permesso a queste persone straordinarie di raccontare le loro storie solo in un determinato momento storico, cioè molto tardi”.

La Società italiana delle storiche e gli istituti storici della resistenza hanno fatto un lavoro di ricerca importante a partire dalla fine degli anni ottanta, che ha spinto molte protagoniste della resistenza a condividere le loro memorie e a renderle pubbliche. C’è tuttavia un lavoro che ancora andrebbe fatto: dovremmo ricostruire i fili biografici di queste donne – che in molti casi purtroppo sono già scomparse – per permetterci di raccontare quello che finora è stato taciuto.

di Stefania Lastoria

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