La salute dei mari, la nostra salute
L’otto di giugno si è “festeggiato” il ventinovesimo World Ocean Day, giornata istituita dopo il summit mondiale del 1992. Una ricorrenza pressoché inutile, se si considera che pochi giorni prima si è consumato il disastro della X-Press Pearl, la nave portacontainer che è andata a fuoco ed è naufragata presso le coste cingalesi. La nave ha riversato in mare 25 tonnellate di acido nitrico, che ha avvelenato un’immensa area dell’oceano Indiano, e diversi container di microplastiche, che hanno inquinato il mare e le coste. Si teme, inoltre, che qualche centinaio di tonnellate di combustibile possano riversarsi dai suoi serbatoi in quest’area di mare già profondamente danneggiata.
Dall’anno dell’istituzione della giornata mondiale (il 1992) si sono susseguiti quaranta incidenti rilevanti, cioè con una fuoriuscita di petrolio superiore alle 100 tonnellate ciascuno: e già, forse 99 tonnellate sarebbero da considerare trascurabili. Si stima che ogni anno le perdite di petrolio in mare ammontino a 4 milioni di tonnellate per tutto il pianeta e di 600.000 tonnellate per il solo Mediterraneo.
Più che festeggiare la giornata mondiale, si dovrebbe celebrare ogni anno un funerale per i mari che stiamo colpevolmente distruggendo.
Negli stessi giorni il mar di Marmara è stato ricoperto da una spessa mucillagine, con effetti nefasti sull’ossigenazione delle acque e, quindi, sulla vita marina di quel piccolo e, finora, splendido bacino.
Sì, capisco che possa sembrare di cattivo gusto ricordare questi brutti episodi quando ci prepariamo ad andare in qualche località balneare, a godere del mare, del sole e del cibo squisito che il mare ci dona. Magari in crociera su una splendida nave lunga più di 300 metri, che consuma l’equivalente di una città di medie dimensioni, pur avendo la popolazione di un piccolo paese. Eppure dobbiamo pensarci, e pensarci bene.
È davvero paradossale che, nonostante l’attenzione che alcune Istituzioni cercano di portare ai problemi dell’ambiente e alla necessità – assoluta e impellente – della sua salvaguardia, continuino a verificarsi fatti come questi. Sembra che non vi sia rimedio e, a ben vedere, è proprio così. Voglio dire che non ci si può illudere che si tratti di eventi episodici, di disgrazie imprevedibili, di uno scotto – trascurabile o almeno inevitabile – da pagare al progresso. Non si possono chiamare incidenti gli episodi ricorrenti, che non hanno più alcun carattere di eccezionalità. Si direbbe che il nostro stile di vita è diventato incompatibile con la salute del pianeta e, quindi, con la sopravvivenza della nostra civiltà, ammesso che così possiamo ancora chiamarla.
Quattro milioni di tonnellate riversate ogni anno nei mari non possono chiamarsi incidente: sono, se mai, un’abitudine criminosa e pertinace.
Come se non bastasse, le navi utilizzano quasi tutte combustibili altamente inquinanti, ricchi in zolfo e metalli pesanti. La maggior parte delle navi mercantili e delle grandi navi da crociera bruciano nei motori “olio pesante”, un economico sottoprodotto dell’industria petrolifera, che contiene zolfo in percentuale centinaia di volte superiore a quella consentita per il gasolio per autotrazione. Un recente studio ha evidenziato che le grandi navi da crociera – da sole – hanno immesso nell’aria in un anno 20 volte più ossido di zolfo che l’intero comparto automobilistico circolante in tutta l’Unione europea, per non parlare delle grandi quantità di CO2 prodotte da queste inutili e deleterie città galleggianti.
Non voglio tediarvi con le cifre allarmanti sull’aumento della mortalità delle popolazioni che vivono attorno alle aree portuali di tutto il mondo, Italia compresa, ma è evidente che la minaccia all’ambiente non deriva da rari incidenti, ma dalla quotidiana normalità. Una normalità ignorata e sottovalutata, ma deleteria e criminale.
I naufragi sono sempre qualcosa di drammatico, ma quelli di duemila anni fa hanno donato ai posteri i bronzi di Riace e altri reperti degni di stare nei musei. I naufragi odierni, al contrario, lasciano ai posteri inquinamento e veleni. Ma in generale, ormai navigare vuol dire inquinare. È questo il progresso?
di Cesare Pirozzi