Non l’ho detto io: l’ha detto Baudelaire

Non l’ho detto io l’ha detto Baudelaire. Un ultimo grido, rauco, maldestro, chiude il sipario così come lo ha aperto. Andrea Trapani, sudato e tremante, come il maestro Pollini, ha paura, del concerto, del pubblico, ma la forza delle viscere lo innalza sopra la platea e dietro al pianoforte. Un progetto di Biancofango, drammaturgia di Francesca Macrì e Andrea Trapani, traduzione di Francesca Macrì che ne cura anche la regia. Ma lui è solo, come Baudelaire, come le sue ossessioni, solo. L’attore, è solo sul palco, con una testa d’asino è un pianoforte verticale. Un microfono di lato dove ansimare i versi di un poeta maledetto che maledetto non era. Trapani-Baudelaire non rinnega se stesso, ma ingloba nel suo io e fagocita i versi di un poeta non stereotipato, ma oltre i classicismo che è talmente attuale da metterci a nudo, noi e le nostre insicurezze.

L’attore, in Baudelaire, è talmente oltre Baudelaire da non avvertirne il peso, ma lo rende fruibile, talmente è su di lui che ci permette di scoprirne la scrittura potentissima che una volta libera esplode e arriva allo stomaco. Leggere la poesia non è facile, suonare la poesia è ancora più complesso, ma Andrea Trapani, riesce a conciliare due difficoltà in una sola unica essenza in grado di esplorare con durezza, ma anche con dolcezza e nobiltà d’animo, quella capacità di previsione dei tempi per superare e nel contempo restare ancorati al mito di Edipo. Non recide i legami con la madre, ma ne prende le distanze per evolversi verso direzioni spesso sconosciute ma rese reali dal vociare fuori campo delle voci di Nanni Moretti, Freddy Mercury ed altri ancora, per affondare in profondità, con gesti estremi e ripetuti, nell’animo bisognoso di indagare la vita. Un dialogo serrato, convincente, generoso, fatto ricerca iniziata dalla nascita: poeti si nasce e poi si diventa. La differenza è data dalla vocazione, quella vocazione a  noi  ci viene trasmessa, dalle viscere, fin dentro le nostre viscere. Non l’ho detto io: l’ha detto Baudelaire.

di Claudio Caldarelli