Informazione e dezinformatsija
Nel tanto parlare della guerra in corso in Ucraina si è affermata, paradossalmente, l’idea che quel Paese non conti di per sé: conterebbe per la sua posizione geopolitica, perché la sua collocazione nella sfera d’influenza americana o europea allarma la Russia, perché il suo presidente era un attore, perché ci sono il Donbass e la Crimea, e via discorrendo. Sta di fatto che, in generale, i media non parlano affatto dell’Ucraina per come essa è o era prima della guerra, della sua identità, delle sue risorse, della sua storia, della sua cultura: cioè del suo corpo e della sua anima. In definitiva, si è imposta la narrazione che i motivi di questa maledetta guerra siano da ricondurre alla contesa tra USA e Russia, allo scontro tra due opposti imperialismi, di cui quella terra martoriata fa le spese, vaso di coccio tra vasi di ferro.
Sebbene non si possa negare che anche questi fattori influiscano in qualche misura sulla travagliata vicenda, non si deve dimenticare che vi sono altri fattori in gioco, più concreti e vitali, che sono, a mio modo di vedere, preponderanti.
L’Ucraina è uno dei membri fondatori dell’ONU: per capire, quando l’Italia è entrata a farne parte nel 1955, l’Ucraina già c’era da dieci anni.
Fino al 1994 è stata la terza potenza del mondo per arsenale nucleare, poi consegnato alla Russia in cambio della garanzia alla sua integrità territoriale (sic!). Possiede quattro centrali nucleari – tra le quali la più grande d’Europa a Zaporižžja – con 15 reattori operativi e due in costruzione.
In Ucraina è situata l’industria aeronautica Antonov, che produce gli An-225 Mriya, attualmente gli aerei più grandi del mondo.
È una potenza agricola, con il 60% della produzione mondiale e il 75% dell’export di semi di girasoli, e con il settimo posto nella produzione di grano.
Finché è esistita l’Unione Sovietica, di cui l’Ucraina era parte rilevante, Mosca di fatto controllava queste risorse. Grazie al contributo ucraino, infatti, l’URSS era il primo produttore mondiale di grano. In un recente articolo Saviano ricorda la carestia del 1933, che fece crollare la produzione di grano ucraino. Stalin ne incolpò i kulaki, piccoli proprietari terrieri, e ne approfittò per espropriarli e deportarli in massa, causando la morte per stenti di un numero incerto tra i quattro e i sei milioni di persone, donne e bambini compresi: l’“Holodomor” (sterminio per fame in lingua ucraina), un vero genocidio, secondo solo alla shoah. Sul piano militare, l’URSS poteva contare sugli ordigni nucleari e sugli Antonov ucraini. E, sul piano diplomatico, all’ONU poteva sempre contare sul voto favorevole di tutti quei paesi, come l’Ucraina, che figuravano come repubbliche indipendenti, anche se in realtà non lo erano.
Ora l’URSS non c’è più – il cammino della storia ha preso una direzione diversa – ed è stata sostituita dalla Comunità degli Stati Indipendenti, ridimensionata rispetto all’URSS dall’uscita delle ex repubbliche sovietiche Estonia, Lettonia, Lituania, Georgia e Ucraina. La Cecenia riuscì ad ottenere l’indipendenza nel 1997 dopo una guerra sanguinosa, e fu riconquistata dalla Russia di Putin con un’altra devastante guerra durata 10 anni. Il casus belli per la seconda guerra cecena furono tre attentati in territorio russo attribuiti ai ceceni, ma alcuni osservatori e un ex agente del KGB (Aleksandr Litvinenko) sostennero che furono in realtà compiuti dai servizi russi allo scopo di giustificare la guerra.
A quanto pare Putin rimpiange l’antica potenza e, dove può, cerca di riprendere il controllo delle ex repubbliche sovietiche con la forza. È ciò che sta accadendo in Ucraina e la realtà delle cose mi sembra ben diversa da come il governo russo cerca di descriverla. La “denazificazione” voluta da Putin somiglia molto alla “dekulakizzazione” voluta da Stalin: una scusa per appropriarsi di un territorio indipendente, con le sue risorse agricole e industriali. C’è da sperare che questo ennesimo sopruso non abbia lo stesso prezzo in vite umane del precedente.
Non solo le risorse materiali, ma anche le risorse morali del popolo ucraino sono obiettivo della guerra. È per questo che la guerra è stata preceduta da una campagna di “dezinformatsija” (il vocabolo “disinformazione” è linguisticamente di origine russa, creato in ambito GPU-KGB circa un secolo fa). Nel luglio scorso Putin ha pubblicato un saggio intitolato “Sull’unità storica dei russi e degli ucraini”: ma allora perché li bombarda? e perché loro resistono così tanto all’ingresso dei “fratelli” russi? Pochi giorni prima dell’invasione ha sostenuto in un lungo discorso televisivo che “il Paese non è mai esistito come entità autonoma”, subito spalleggiato da Lavrov (“non ha il diritto di essere una nazione sovrana”); precedentemente aveva definito la Crimea come “una parte inseparabile della Russia”, e il passaggio della regione all’Ucraina un “saccheggio” ai danni della Russia. Tutti falsi storici assodati, miranti a negare agli ucraini la dignità di popolo e il diritto all’indipendenza. Un tipico esempio di sfacciata “dezinformatsija”. La “rivoluzione di Maidan”, con cui decine di migliaia di dimostranti nell’omonima piazza di Kiev costrinsero alla fuga l’ex presidente Viktor Janukovyč (fuggito, guarda caso, in Russia dopo il suo tentativo di soffocarla nel sangue), è presentata come un colpo di stato filonazista, mentre semplicemente mirava a evitare una svolta autoritaria e il ritorno sotto il dominio russo.
Al contrario, l’Ucraina ha una sua storia millenaria, un’identità di nazione, una lingua e una letteratura profondamente sentite. I punti di contatto storico con la Russia esistono e sono ben noti, ma non cancellano l’individualità e il desiderio di indipendenza di quel popolo.
Dispiace che a tanti commentatori, più o meno esperti, sfugga che l’Ucraina sia di per sé stessa un boccone appetibile per l’attuale governo russo, e che tutte le chiacchiere sui motivi “geopolitici” dell’aggressione finiscano con lo svilire la sua importanza economica e la sua dignità di popolo. Così come la narrazione del regime russo, che cerca di diffondere l’idea che l’Ucraina semplicemente non esiste o, se esiste, è un regime nazista colpevole di genocidio. Un tipico esempio del bue che dà del cornuto all’asino, per dirla con un efficace adagio popolare.
Forse anche informarsi bene e resistere alla dilagante “dezinformatsija” può servire alla pace.
di Cesare Pirozzi