Maria Giudice, giornalista e attivista italiana

C’è un libro, anche piccolo (140 pagine), estremamente denso di fatti e sentimenti, da poterlo leggere in una giornata se non si sente quello smisurato bisogno di soffermarsi su una frase, pensare, fare un giro di fantasia tra la realtà raccontata e il nostro immaginario, tornare indietro, andare avanti fino alla fine che lascia nell’animo una scia di ricordi, un profumo denso di rimorsi.

La voglia di essere lei. Il bisogno di essere lei. Stiamo parlando di Maria Giudice (che è appunto il titolo di questo libro di Maria Rosa Cutrufelli, Giulio Perrone editore), una donna straordinaria, che ha avuto una vita inimmaginabile, e fra un compagno e l’altro ha messo al mondo dieci figli, una dei quali era Goliarda Sapienza, attrice e scrittrice purtroppo scomparsa, molto legata a Maria Rosa, l’autrice del libro.

E allora chi era Maria Giudice? Per molti semplicemente la madre di una scrittrice affermata, Goliarda Sapienza. Perché capita purtroppo che le donne vengano compresse, schiacciate dentro un ruolo prestabilito, anche se sono state a loro volta protagoniste della storia del loro tempo.

Altri tempi, direte voi! Forse sarà stato solo perché erano altri tempi, forse.

Perché diciamocelo chiaramente, questa donna fu una delle figure più significative del “socialismo umanitario” del primo Novecento. Nata a Codevilla provincia di Pavia il 27 aprile 1880 e morta a Roma il 5 febbraio 1953, fu la prima donna a capo della Camera del Lavoro di Torino, direttrice di giornali, dirigente del partito socialista. Conobbe l’esilio e la galera per motivi politici, prima e dopo l’avvento del fascismo. Conobbe anche svariate cliniche per malattie mentali. Dieci figli e un rapporto combattuto, conflittualee complicato con la maternità. Ecco, in realtà basta seguire il filo straordinario della sua vita per ricostruire gran parte della storia del nostro Novecento.

E questo libro non è solo un racconto di un pezzo di storia visto attraverso gli occhi di una donna irriducibile, appunto Maria Rosa Cutrufelli per la quale tutto ciò rappresenta in primis un atto di riconoscenza personale nei confronti di Maria Giudice e allo stesso tempo un gesto d’amore per un’amica perduta, Goliarda Sapienza.

Maria Giudice era figlia di piccoli proprietari terrieri piemontesi, studiò dalle suore nonostante i genitori repubblicani e garibaldini, poi si iscrisse nella sola università concessa alle donne, quella magistrale e da lì esplose nella sua cultura, stile di vita, progetti, orizzonti da colorare.

Andare verso il popolo a fine Ottocento significava mettersi nel mirino, letteralmente, della forza pubblica e dell’esercito e finire in galera, un rituale che alla nostra Maria capitava sovente, solo per aver fatto un comizio o pubblicato una rivista. Sfogliando le 140 pagine di questo libro, viene spontaneo, in particolare ai giorni nostri, chiedersi quale forza d’animo inesauribile spingesse i socialisti, gli anarchici e poi i comunisti ad affrontare angherie e condanne, a rischiare la vita. Furono queste le origini della “democrazia”, che non fu un regalo, che non ci piovve dal cielo ma che persone di cui spesso non sappiamo nulla lottarono per ottenerla, per donarci un futuro migliore, un mondo che loro potevano soltanto sognare.

Non un dono ricevuto ma una terra dissodata palmo a palmo contro i padroni, contro i potenti.

Ma Maria Giudice era una donna, doppiamente vessata e ostacolata, anche dalla cultura grossolana dei compagni. Tanto che la prima volta che rimase incinta e su di lei pendeva l’ennesimo mandato di cattura, si rifugiò dai compagni svizzeri in casa di una rivoluzionaria ucraina, Angelica Balabanoff, e lì conobbe altri esuli, per esempio un russo destinato a diventare famoso, Lenin. E in casa di Maria e Angelica capitò, anche lui esule, stremato e affamato, un socialista di nome Benito Mussolini (e si dice che con Angelica concepì una figlia che poi fu adottata dalla moglie Rachele, Edda).

La “libera unione” (già che il matrimonio era un contratto incompatibile con la scelta di amarsi) di Maria con il compagno anarchico, terminò dopo sette figli con la scelta di lui di arruolarsi nella grande guerra, per combattere la barbarie tedesca. Nel frattempo, Maria era diventata la prima segretaria donna della camera del lavoro di Torino. Anche lei travolta dal furore popolare e dagli scioperi operai (le moltissime donne che erano state chiamate alle fabbriche per sostituire gli uomini mandati a farsi ammazzare al fronte) e condannata infine a tre anni di carcere insieme a un giovane Umberto Terracini e dopo aver diretto il giornale socialista in cui lavorava un altrettanto giovane Antonio Gramsci.

Ma non siamo qui a raccontare tutta la storia, il trasferimento in Sicilia, il suo compagno morto in guerra e il nuovo compagno catanese, avvocato e anche lui socialista dal quale ebbe altri tre figli, ultima dei quali Goliarda Sapienza.

La cosa davvero importante è che è una donna a raccontare la vicenda di due donne, madre e figlia. Una storia che diventa interessante per la biografia puntigliosamente documentata ma che è principalmente un racconto emozionante tenuto e accudito in una scrittura femminile e femminista.

Il modo di scrivere di Maria Rosa Cutrufelli appare così lieve e profondo insieme, perfino attenta nella scelta degli aggettivi per lasciar trasparire le sensazioni e i sentimenti, persino i profumi della Sicilia. Così, leggendo, si ha la certezza di sentire una voce gentile, amorevole, misurata che non ha paura delle durezze della storia ma al tempo stesso cuce le relazioni tra madre e figli, sorelle e fratelli, padre e figli, lasciando di tanto in tanto irrompere un “io”, perché questa è anche la storia di Maria Rosa, del suo passato e dell’amicizia con Goliarda, due siciliane erranti.

E alla fine resta quel retrogusto di nostalgia di quel che eravamo, e avremmo potuto essere, o che saremmo stati, noi tutti ribelli di varie epoche.

Di Stefania Lastoria