Vulvodinia: il dolore che la medicina non ascolta

Secondo un articolo pubblicato su Nature ne soffre il dieci per cento della popolazione di sesso femminile, in particolare tra i 20 e i 40 anni. Eppure

forse è la prima volta che leggete questa parola: vulvodinia, composta da “vulva” ossia la parte esterna dell’apparato genitale femminile e dal suffisso “dinia” che indica dolore. Un dolore vulvare persistente, cronico, invalidante.

“Ho avuto per anni la vulva e la vagina in fiamme”, racconta Chiara Natale, una donna con vulvodinia. “Inizialmente mi avevano diagnosticato una cistite, che dovevo curare con gli antibiotici. La cistite però tornava, più forte. Poi mi sono lasciata con il partner e per due anni non ho avuto rapporti. La cistite si è placata. A quel punto mi sono chiesta se ci fosse un nesso tra sesso e bruciore. Ho cercato i sintomi su Google. Il primo risultato è stato: vulvodinia. Alla visita successiva ho chiesto: ma non potrebbe essere vulvodinia? Il medico, senza fare alcun test, ha scosso la testa e ha escluso l’ipotesi”.

Sono moltissime le donne che raccontano al proprio ginecologo i sintomi, girano consultori, studi privati, ambulatori. Spesso ricevono diagnosi di vaginite anche se da esami più approfonditi non c’è la presenza di batteri e la vaginite è un’infiammazione generica, si combatte combattendo i batteri.

A molte sono stati prescritti antibiotici ma la cosa assurda è che sembra che i medici in primis non accettino questa malattia.

Ad alcune donne è stato detto: “È tutto nella tua testa, hai una relazione disfunzionale con il tuo partner. Se lo amassi davvero non proveresti dolore”.

Ebbene si. Un salto nel passato. Un’affermazione che riflette il pregiudizio culturale secondo il quale una donna deve sopportare ogni dolore, dal crampo mestruale al dolore di una sessualità insoddisfacente, fino, ovviamente al parto.

Eppure per diagnosticare la vulvodinia basta eseguire uno swab test, o test del cotton-fioc. Si tocca la vulva con la punta di un cotton-fioc: lo stimolo, normalmente non doloroso, viene percepito come un bruciore, una puntura, una lama. Spesso si accompagna a una contrattura della muscolatura del pavimento pelvico. È un effetto domino: la contrattura rende la penetrazione dolorosa, porta alla formazione di lacerazioni della mucosa vaginale e facilita il passaggio di batteri che provocano la cistite.

“Parliamo di una patologia, non di una malattia rara”, afferma Filippo Murina, ginecologo. “Il vestibolo vaginale, ovvero l’ingresso della vagina, è ricchissimo di terminazioni nervose. In queste donne però si è persa la capacità di distinguere tra tocco e dolore. C’è una sorta di anarchia delle terminazioni e il cervello risponde attivando le aree del dolore. Esclusi elementi che suggeriscano altre problematiche, si deve arrivare a quella diagnosi. Il problema è che non succede”.

Le storie si somigliano: otto, dieci, dodici anni di visite e cure inefficaci prima di sentire un medico pronunciare la parola vulvodinia e cominciare un percorso.

“Il giorno della diagnosi è triste, ma è anche un momento di gioia”, dice Chiara. Spesso non è un medico, ma qualcuno in famiglia, le amiche e sempre di più internet, a fornire informazioni utili. Per molte persone un sito, un blog, una pagina Facebook può essere la prima àncora di salvezza e un modo per ridurre il danno: una diagnosi tardiva infatti non prolunga solo l’esposizione al dolore, ma anche la cura, perché il dolore si cronicizza.

“Ho dovuto accompagnare delle pazienti al divorzio perché il partner non riusciva a reggere il peso della malattia. C’è chi deve rinunciare a un lavoro, a un matrimonio, a una maternità”, racconta la psicoterapeuta Federica Zanardo.

E poi c’è questa tendenza diffusa ad etichettare la vulvodinia come disturbo psicosomatico. Grazie alla ricerca sappiamo che l’infiammazione delle terminazioni nervose compare anche a causa dello scarso assorbimento di alcuni ormoni, che creano rivestimento e attenuano la sensibilità nervosa. È impensabile considerare solo l’aspetto psicosessuologico.

Come non esiste una sola causa, allo stesso modo non esiste una terapia valida per tutte. Sul fronte neurologico, bisogna innanzitutto spegnere l’interruttore del dolore. Qui entrano in gioco i miorilassanti, per agire sull’ipercontrattilità del pavimento pelvico, e gli antidepressivi o antiepilettici, categorie di farmaci che, a bassi dosaggi, agiscono sul dolore neuropatico.

La vulvodinia è una patologia cronica.

Alcune donne che hanno anche avuto il cancro e ne sono uscite fuori, sostengono di aver preferito il cancro e tutto ciò che ha comportato piuttosto che il dolore invalidante della vulvodinia.

Ci spiega ancora la psicoterapeuta Federica Zanardo: ”Anni di dolore mandano in tilt il sistema nervoso simpatico e il parasimpatico, attivando uno stato di continua allerta. Io aiuto la paziente ad accettare la cronicità del problema e ad uscire dal circolo di pensieri ossessivi. Inoltre, molti psicofarmaci abbassano la libido e quando riemerge il desiderio per molte è uno shock: quasi non credono di poter provare piacere. Nella delicata fase di mantenimento ci possono essere sorprese. Basta un rapporto in una posizione strana, un colpo di freddo, e torna un picco di dolore. A quel punto molte perdono la speranza. Io sono qui per mantenere alta la fiducia”.

L’altro fronte terapeutico è quello muscolare. La riabilitazione del pavimento pelvico è praticata da fisioterapisti e ostetriche specializzate. Guarire è possibile, ma servono premure che bisognerà mantenere per tutta la vita.

Una terapia multidisciplinare prevede anche un piano nutrizionale adeguato che regoli la flora intestinale e impedisca il passaggio dei batteri in vagina per evitare le infezioni ricorrenti.

“La ricerca si muove, stiamo ottenendo risultati con l’inoculazione di cannabidiolo, la componente non psicogena della cannabis, che ha un’azione marcata sul dolore”, afferma il ginecologo Filippo Murina. “Ma bisogna investire di più sulla diagnosi precoce, ci vogliono tempo e soldi. Io faccio ricerca grazie al finanziamento di aziende farmaceutiche che credono in me come professionista, non perché riconoscono la patologia”.

D’altronde, non la riconosce neanche lo stato: oltre alla scarsa formazione di personale medico specializzato, lo dimostra il fatto che la malattia non compare nei Livelli essenziali di assistenza (Lea), cioè non è una malattia per la quale sono previste prestazioni o servizi forniti dal Servizio sanitario nazionale.

È invisibile due volte: al medico, che non la conosce e riconosce, e allo stato.

Stefania Lastoria