Un Fuori che si chiama Rebibbia
La scrittrice Goliarda Sapienza, nel 1980, a cinquantacinque anni, ruba dei gioielli in casa di un’amica e li porta a un banco dei pegni, esibendo il documento d’identità di sua cognata. Lo fa per necessità, sta per essere sfrattata da casa, e non riesce a trovare nessun lavoro per pagare l’affitto, la – pigione, come si diceva più spesso allora. Finisce nel carcere romano di Rebibbia. Anche sua madre, Maria Giudice, protagonista delle lotte sindacali e femministe, aveva fatto il carcere – politico però –, e ripeteva sempre che nessuno poteva dire di avere veramente vissuto senza aver provato la – prigione. E una cosa simile l’ha detta anche Sandro Pertini, l’amato Presidente della Repubblica, partigiano e italiano vero. Magari quel ritornello le frullava ancora nel cervello prima, durante e dopo la sottrazione dei brillocchi. Fatto sta che resta a Rebibbia solo cinque giorni: non dieci, ma cinque giorni che sconvolsero il mondo. La sua visione del mondo, la sua Weltanschauung. Là dentro trova il vero fuori, vi radica amicizie inaspettate, vi dedica ben due libri: L’Università di Rebibbia, 1983 e Le certezze del dubbio, 1987. Essere finita in carcere è in realtà la sua fuga liberatoria dall’immensa colonia penale esterna, dall’ergastolo sociale della metropoli.
Mario Martone, nel suo film Fuori, fa propria questa materia, questa esperienza che marchia a fuoco la scrittrice, per restituircela in forma d’arte cinematografica. E vi riesce, attraverso una regia magistrale, inquadrature e sequenze, dinamicamente fluide e soprattutto inedite, dei palazzi e dell’intera architettura urbana romana. A esse il montaggio di Jacopo Quadri riesce a conferire tempi e contrattempi di un vero racconto letterario. Le tre detenute e compagne di cella Goliarda, Roberta e Barbara, una volta tutte e tre in libertà, si rincontrano e continuano a frequentarsi. Soprattutto Goliarda e Roberta, quest’ultima impegnata politicamente, ma anche tossica. La scrittrice si rende immediatamente conto che il dentro Rebibbia, nel cui crogiolo le tre hanno fuso la loro amicizia continua a perpetuarsi là fuori, per le strade, le piazze, i bar, la luce abbacinata di quella calda estate del 1980 a Roma. Nelle pagine di Sapienza c’è un piccolo gioiello di storia incastonato dentro la storia più grande. Il compagno di Barbara le ha aperto una profumeria nella periferia della città. È a pianta poligonale, con mobilio e nicchie in legno ambrato e vetro, con eleganti flaconi di profumo soavemente distribuiti alle pareti. È racchiusa, sì. graziosamente confinata in sé stessa: ossia è la continuazione della cella di un carcere con altri mezzi. Una piccola porta apre in un bagno retrostante ancora in allestimento, disadorno, con una spoglia doccia. E lì dentro, per le tre donne, tutto si svela autenticamente reale, proprio in forza d’una atmosfera, d’una messinscena e di sequenze impeccabilmente irreali.
Matilda De Angelis svetta nel dare una dimensione fortemente, linguisticamente interiore al personaggio più intenso, quello di Roberta, proprio perché non ha invece ambiente esteriore, ossia casa, famiglia, frequentazioni, a parte un amico che compare ogni tanto. Il suo fuori, in lei, è davvero tutto dentro. Di Elodie si può dire che Martone le ha cucito addosso un personaggio limitato, ossia alla sua portata come attrice ancora in formazione, e che lei ha saputo ben rispettare e muoversi dentro questa precisa area d’azione. Per Valeria Golino, come si sa, c’è la singolarità di un’interprete che conosce come poche il suo personaggio. Lei è l’autrice, regista e anche co-sceneggiatrice della serie televisiva L’arte della gioia, tratto dall’omonimo capolavoro di Sapienza. Un’opera pienamente riuscita, anche perché riesce a far trapelare dietro la tessitura iconografica, il fondamento e insieme la vaglia letteraria della scrittrice. Nel personaggio delineato da Martone e dalla sceneggiatrice Ippolita Di Majo, il pensiero, la filosofia, la visone del mondo di Goliarda in quanto scrittrice, invece, affiora molto. E questo contrasta con la didascalia finale, nella quale si afferma che Sapienza si è rivelata una delle più grandi scrittrici del Novecento. Bene, lo recita una scritta, ma nel film questo poco si vede, si avverte, si percepisce epidermicamente. In un film del 1981, decisamente inferiore a questo di Martone, Storie di ordinaria follia, con Ben Gazzara e Ornella Muti, su Charles Bukowski, il regista Marco Ferreri, riesce eccome a farcelo sentire lo scrittore, e proprio attraverso le sgangherate imprese diurne e notturne stratificate nei suoi racconti letterari. Ora si sa quanto Bukowski fosse anche il reale personaggio di sé stesso, messo in pagina attraverso soprattutto un suo alter ego chiamato Chinaski. Forse, però, un’occhiata a quel vecchio film non avrebbe guastato. Sembrerebbe, inoltre, che una scena in cui Goliarda-Golino discute, e anche animatamente, di letteratura fosse stata in effetti girata da Martone, ma successivamente tagliata non si sa perché.
Questa personale considerazione, però, non sminuisce assolutamente il valore di un film, sia perché ci restituisce una figura della storia letteraria italiana ed europea ancora misconosciuta dal grosso pubblico, sia per l’altezza della forma d’arte cinematografica attraverso cui pone e stratifica questo contenuto. Giudizio molto buono. Durata 117 minuti.
Riccardo Tavani