La sacralità dell’affabulatoria rivoluzione profana
Le ragazze e i ragazzi che nel 1968 irruppero sulla scena sociale, culturale e politica italiana avevano solo un ricordo sbiadito di quella coppia di comici, Franca Rame e Dario Fo, censurati e cacciati dalla Rai nel 1962 per le loro dissacranti battute nel programma serale di punta Canzonissima. All’inizio degli anni ’70, i giovani si ritrovarono così, semplicemente quella coppia fuori della televisione. Fuori della TV ma “dentro” di loro. Per vederli, infatti, non dovevano andare a teatro. Era il teatro dei due che andava nelle università, nelle fabbriche, negli ospedali, nelle piazze, nelle case del popolo, nei palazzi occupati, ovunque ci fosse uno spazio adeguato da adibire a provvisori palcoscenici e sipari. Una Franca Rame e un Dario Fo tutti loro, della loro età ribelle e impegnata.
Luoghi profani fatti teatro che si riempivano fino all’inverosimile, traboccavano partecipazione, scambio, febbre sociale, frenesia culturale, visione ideale, azione concreta già la mattina successiva.
Proprio in quegli anni Dario Fo mette a punto una macchina teatrale formidabile nella sua semplicità, micidiale nella sua potenza scenica e affabulatoria. Prende il nome di Mistero Buffo. Frutto di lunghi, seri studi sulla tradizione e su materiali inediti, sepolti del teatro di strada fuorilegge, giullaresco, satirico religioso medievale, questo prodigioso multiforme caleidoscopio narrativo trova una sua sintesi sbalorditiva. Un solo uomo, senza scene, fondali e apparati alle spalle o intorno. Un solo uomo, Dario Fo, un piccolo microfono con un cordino al collo, e la sua funambolica arte mimica, buffonesca, tragica, ridanciana, che afferra per le budella la storia, la religione scritta dal potere e la ribalta. La ribalta dentro le coscienze di chi lo ascolta, perché quella materia è stratificata nel nostro inconscio individuale e collettivo, di società soffocata da secoli di dogma politico e religioso.
Questo è il fulminante arco voltaico che scocca in quegli anni e illumina la ribollente scena sociale. Una massa giovanile – nelle scuole e nelle fabbriche – che preme per uscire dall’oscurantismo di un potere che non si è per niente liberato della saldatura tra fascismo, potere economico e chiesa, ma anzi la rinnova tutti i giorni, e un racconto che squarcia la radice stessa di quell’atavico oscurantismo. La modernità – affermata, praticata da quelle ragazze, da quei ragazzi – si nutre anche del Medioevo rappresentato in maniera folgorante da Dario Fo. La mancanza totale di apparato scenico, permette all’attore di andare davvero ovunque lo chiamino. Il solo limite è la massa crescente di spettatori: ovunque vada le sale scoppiano. È costretto così – quando arriva in una città – a dare spettacoli serali, con numerose repliche, in un teatro abbastanza capiente, per esibirsi durante il giorno nelle situazioni di lotta locali cui lui partecipa con pezzi variamente rimontati ad hoc della sua poliedrica macchina affabulatoria. Mistero Buffo, infatti, è un insieme di episodi tratti da pagine di storia, del Vangelo, del papato, rivissuti sullo sfondo di stalle, osterie, sacrestie, fango dei campi, arazzi del potere. Un insieme che si può – a secondo delle situazioni – prolungare, accorciare, variare, sia nel numero di episodi sia all’interno di ogni singolo episodio.
Le fonti di Dario Fo attingono a tutta la storia della poesia e del teatro medievale italiano. Dal poeta siciliano Cielo D’Alcamo (di cui Fo riporta in auge la dizione autentica, Ciullo D’Alcamo, ossia Culo) al drammaturgo, attore veneto del 1400-500 Angelo Beolco, in arte Ruzante. In realtà, Fo fa confluire dentro il suo teatro di narrazione radici sia più antiche sia più moderne: da Plauto a Majakovskij. La lingua di Mistero Buffo è un dialetto lombardo-veneto genialmente reinventato e imbastito dall’attore, il quale, però, ricorre spesso al cosiddetto grammelot. È questa una lingua totalmente inventata, che imita, rifà il verso a una realmente esistente (inglese, francese, spagnolo, ecc.) ma senza che ci sia neanche una sola parola vera di esse. Eppure nell’affabulazione mimica di Fo questi sproloqui diventato del tutto comprensibili e massimamente esilaranti nei loro doppi e tripli sensi che il mattatore vi cuce dentro con toni vocali, grugniti, fischi, lazzi, gesti corporali da saltimbanco, espressioni facciali grottesche e addirittura improvvise interruzioni, densi silenzi che facevano venire giù il teatro dalle risate e dagli applausi.
Quella di Mistero Buffo è la vera massa materiale, culturale, di azione teatrale, politica, che è valsa il Premio Nobel per la Letteratura a Dario Fo nel 1997 (ma era già stato candidato nel 1975). Questa la motivazione dell’Accademia di Svezia: “Perché, seguendo la tradizione dei giullari medievali, dileggia il potere restituendo dignità agli oppressi”. Il ridare dignità, voce, possibilità concrete a chi è stato ammutolito, stuprato, negato dalla violenza del potere è il lato sacro della affabulatoria predicazione profana in forma di teatro rivoluzionario, nel senso del ribaltamento dei racconti e dei riti di oppressione stratificati lungo la storia umana fino alla contemporaneità. Dario Fo offriva questa potente dimensione sotterranea alla rivolta giovanile di quegli anni. La sua attività di autore, storico del teatro, inventore di funambolici congegni scenici, di attore, musicista, paroliere, pittore è multiforme e sfuggente alla dimensione di un singolo articolo, per non parlare del suo impegno diretto, con Franca Rame, su temi cruciali quali la repressione politica e le carceri. Mistero Buffo resta però il capolavoro che travalica lo stesso periodo storico cui ha dato significato e senso.
di Riccardo Tavani