5 Gennaio, Il giorno dell’Antimafia
5 Gennaio 1948, 5 Gennaio 1984. Giuseppe Impastato e Giuseppe Fava. Peppino e Pippo. Uniti da un filo rosso, spezzato troppo presto. Il 5 Gennaio è un giorno strano per chi, nonostante tutto, desidera ancora credere nell’antimafia, quella buona, diretta, dal basso. Quella di Peppino e di Pippo. Senza motti né magniloquenza, senza grandi discorsi. Peppino Impastato raccontava la mafia di Cinisi servendosi di un’arma impensata: la ridicolizzazione, persino il riso. Si può e si deve ridere dei mostri. Si può e si deve perché il riso è il più universale dei linguaggi. Come una goccia cinese, inesorabile, la dissacrazione dei mafiosi risuona attraverso le frequenze di Radio Aut e arriva alle orecchie della popolazione. È una rivoluzione dal basso che si impone di smantellare le radici culturali che hanno permesso, e permettono, alla mentalità mafiosa di attecchire, di distruggere quel clima che è un misto di timore e di venerazione e lo fa attraverso il più popolare degli strumenti, la radio. Non esistono più innominabili. Non esistono per Peppino Impastato come non sono esistiti per Pippo Fava. Quel filo rosso tessuto dalla volontà di fare del giornalismo un strumento di liberazione dall’oppressione mafiosa, si snoda attraverso percorsi diversi per arrivare ad un obiettivo comune: le coscienze della gente. Se la via di Peppino Impastato è quella dell’ironia, quella di Pippo Fava passa attraverso un linguaggio semplice, diretto, capace di raccontare un fatto per quello che è, come un vero cronista di nera dovrebbe saper fare. Per arrivare a questo Giuseppe Fava fonda I Siciliani . è il Dicembre del 1982, Fava è appena stato cacciato dal Giornale del Sud proprio per la sua attività, troppo ingombrante agli occhi degli editori. Il giornale, messo su con i suoi più fedeli collaboratori, riscontra un successo immediato e la linea è subito chiara. I Siciliani vogliono raccontare, con lo sguardo fedele di una telecamera, cos’è la mafia, ricostruendone affari, contatti, infiltrazioni nel mondo politico e dell’imprenditoria. Non ci sono padrini né padroni. La lente d’ingrandimento del giornale è posizionata su Catania. Negli anni in cui per molti la mafia è ancora un affare tutto legato al palermitano, Fava porta sotto i riflettori una realtà criminale rimasta nell’ombra. Con “I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa”, l’inchiesta pubblicata sul primo numero del giornale e quella che, probabilmente, ne ha segnato la condanna a morte, Pippo Fava delinea una storia della mafia, in passato un confuso insieme di clan dediti all’estorsione, divenuta poi vero e proprio impero economico costruito sul traffico di droga e sul giro di appalti. Come il nome di Gaetano Badalamenti risuonò forte e chiare tra le frequenze di Radio Aut, i nomi dei quattro cavalieri del lavoro Rendo, Graci, Finocchiaro e Costanzo apparvero chiari tra le pagine de I Siciliani. Erano loro i padroni di Catania.
Giuseppe Fava muore la sera del 5 Gennaio 1984, quel giorno Peppino Impastato avrebbe compiuto 36 anni. Pochi mesi dopo l’omicidio Fava, Antonino Caponnetto – allora Consigliere Istruttore del Tribunale di Palermo- emette una sentenza in cui viene finalmente riconosciuta la matrice mafiosa del delitto Impastato. Quel filo rosso, quello che lega Peppino e Pippo ne segnerà anche il destino post mortem. Sulla fine di entrambi se ne sentiranno di ogni. Di Peppino Impastato, trucidato a sassate e poi fatto esplodere sui binari della ferrovia Palermo – Trapani, si dirà che è morto nel tentativo di preparare un attentato. I cinque colpi piantati nel corpo di Giuseppe Fava saranno invece frutto di un delitto passionale o di qualche storia di debiti. Tutto, pur di non pronunciare la parola mafia. Anche i responsabili dei due omicidi verranno condannati a distanza ravvicinata. Nel 2001 e nel 2002, dopo più di 20 anni, saranno finalmente condannati esecutore (Vito Palazzolo) e mandante (Gaetano Badalamenti) dell’omicidio Impastato; nel 2003 sarà la volta di Nitto Santapaola e Aldo Ercolano, mente e braccio dell’omicidio Fava, per i quali la Cassazione sancisce l’ergastolo.
È nata così la mafia a Cinisi e a Catania. Col sangue di chi aveva capito che quello del giornalista non è un mestiere qualunque. Che c’è, o dovrebbe esserci, nel giornalista quel senso di responsabilità verso la società civile, verso i valori della democrazia e della giustizia sociale tale da renderlo il primo tra i garanti della verità. Claudio Fava, il figlio di Giuseppe Fava, nel suo ultimo libro dedicato ai giornalisti che si sono occupati e si occupano di mafia conclude così: “ L’errore di fondo in questi anni è stato celebrare la neutralità della scrittura, come se i giornalisti fossero solo una stirpe di ragionieri, scrivani inoffensivi, spettatori di storie altrui. L’errore imperdonabile è pensare che il nostro sia un mestiere come un altro”.
Di Martina Annibaldi