Gennaio 1986: un omicidio irrisolto, all’ombra dell’estorsione mafiosa

L’uccisione di Paolo Bottone

Il 19 gennaio 1986, mentre era appartato in auto con la fidanzata, dei sicari hanno ucciso il ventiseienne Paolo Bottone, titolare col padre della ISVA una piccola azienda di famiglia, nel campo della manutenzione industriale.

Mostrando lucida freddezza, gli assassini dissero alla ragazza di voltarsi, prima di sparare alla nuca di Paolo. Ma quella che sembrò una vera e propria esecuzione, non trovò mai nessun colpevole, nessuna ufficiale spiegazione definitiva. Le ipotesi che rimasero in piedi (dal tentativo di rapina ad una vendetta per il licenziamento di un dipendente) non furono molto convincenti. Nonostante non siano state trovate prove o minacce, il modus operandi ed il contesto fanno pensare soprattutto ad una vendetta della mafia.

Quest’idea resta la tesi più probabile, visto che l’attenzione di cosa nostra, in quegli anni era chiaramente rivolta all’imprenditoria locale. In quegli anni, suoi artigli si strinsero ancor più sulla Sicilia operosa e produttiva, appropriandosi direttamente del frutto delle fatiche di chi aveva costruito un’azienda. Infatti, nello stesso periodo furono assassinati Francesco Paolo Alfano e Rosolino Abbisso, figli di imprenditori palermitani e mesi dopo nel suo cantiere Giuseppe Genova e Giuseppe Albanese.

C’è da chiedersi se la mafia di una volta, quella vista come romantica e misteriosa, in fondo sia mai esistita. Seppure tragga molti suoi termini da espressioni popolari, che richiamano ad un’antica cultura contadina, quando essa fungeva da potere, al posto di uno stato assente, dell’origine di queste espressioni è stata ed è tutt’ora traditrice. Probabilmente tutti saprebbero dire che cosa significhi “pizzo”, quella sorta di tassazione fissa (spesso detta “protezione”), da parte di un’organizzazione criminale, per non incorrere nelle sue ritorsioni. Ma pochi sanno che la probabile origine di quel termine nasce dal detto “fari vagnari u pizzu”, intendendo significare di far bagnare il becco nel proprio bicchiere, per bere.

Questa espressione dovrebbe significare una concessione di cortesia, non un obbligo la cui disubbidienza sia sanzionata anche con la violenza. Ma nel detto popolare, non si fa intendere alcun obbligo, né alcuna forma di ritorsione violenta. Eppure, la mafia non bagna solo il becco nel bicchiere, non si accontenta di cogliere qualche goccia di vino. La mafia soffoca ogni attività, con quel maledetto pizzo. E dove ci si ribelli, minaccia, poi danneggia, ferisce e uccide. Ecco che quell’antico gesto gentile, perde ogni suo senso poetico ed assume un significato più crudo, più tecnico, quello dell’estorsione, cioè la coercizione sotto minaccia o azione delittuosa, a fare o non fare, ciò che ti viene imposto.

Forse tutti quegli imprenditori hanno pagato il non aver voluto cedere proprietà, controllo o proventi, della loro azienda; forse hanno pagato per avere vinto delle gare d’appalto, alle quali non avrebbero nemmeno dovuto partecipare. Di sicuro hanno pagato con la vita, ciò che i loro colleghi del nord chiamano con orgoglio, “diritto d’impresa”, pur non conoscendo né le difficoltà, né i rischi dei loro colleghi siciliani.

No, la mafia della Sicilia nostalgica, terrosa ed antica, se mai è esistita, oggi non esiste più, esattamente come non esiste più l’antico significato di far bere dal proprio bicchiere. Perché la mafia non s’accontenta di bagnarsi il becco e, un po’ alla volta, soffocandoti col pizzo e con imposizioni, o tutto assieme, ti toglie tutto ciò che hai. Come a Paolo Bottone, quel giorno, tolse la vita.

di Mario guido Faloci

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