La figura di Vincenzo Scarantino nei primi tre processi Borsellino sulla strage di Via D’Amelio.

Erano quasi le cinque del pomeriggio di un’indolente domenica di luglio del 1992, il diciannovesimo giorno del mese, quando il magistrato Paolo Borsellino giunse sotto casa di sua madre, per una visita. Mentre l’autista, Antonino Vullo, stava ancora parcheggiando, un’esplosione violentissima, cancellò in un istante la vita di Borsellino e quella degli uomini della sua scorta, scagliando intorno i loro brandelli di carne. L’autista Vullo, unico sopravvissuto, sceso dalla blindata, si imbatté in uno scenario d’inferno. Nei filmati registrati nell’imminenza dell’attentato si impressero le immagini di automobili distrutte, di palazzi colpiti dall’onda d’urto, di una colonna di fumo che si levava alta contro l’azzurro del cielo, il crepitio delle fiamme. Lo strazio di Caponnetto restò impresso nel cuore di tutti: “E’ finito tutto …è finito tutto” le uniche parole che riuscì a proferire con il volto segnato dal dolore.

La ricerca dei mandanti e degli esecutori materiali della strage fu subito iniziata, con un’apparente grande voglia di giustizia, sostenuta dal cuore di chi, in quell’attentato. aveva visto morire la speranza di combattere Cosa Nostra.
Il processo ( denominato Borsellino uno) iniziò nel 1994, basandosi anche sulle dichiarazioni di due pregiudicati Salvatore Candura e Vincenzo Scarantino, individuati come responsabili grazie all’investigazione di Arnaldo La Barbera e del suo gruppo. In modo particolare lo Scarantino si autoaccusò di aver rubato lui la Fiat 126 che, trasformata in una bomba ad altissimo potenziale, era stata posizionata in via D’Amelio per la strage. Vincenzo Scarantino fece anche i nomi degli esecutori della strage, dei mandanti, dichiarando oltretutto di aver assistito ad una riunione, presso villa Calascibetta, nella quale si era decisa l’uccisione di Paolo Borsellino. In un confronto diretto, Salvatore Cancemi, da Scarantino indicato come presente alla riunione, accusò il collaboratore di dichiarare il falso e di non essere nemmeno a conoscenza del linguaggio usato dagli appartenenti a Cosa Nostra per le espressioni da lui usate nelle descrizioni.
Il processo proseguì, comunque, considerando l’attendibilità di Vincenzo Scarantino che, però, a due anni dalla rivelazioni rese agli inquirenti, nel 1995 decise di ritrattare, dichiarando di essere stato indotto a dire tante falsità, dagli stessi inquirenti.
Non venne ascoltato.

Si arrivò, così, nel 1996 alla condanna dei soggetti da lui indicati come partecipanti alla strage. Profeta, Orofino e Scotto furono condannati all’ergastolo, Scarantino a 18 anni. In aula si scatenò un pandemonio, tra urla dei parenti e degli imputati che contestavano la loro innocenza. In un secondo momento la Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta, considerando inattendibile Vincenzo Scarantino, assolse Pietro Scotto da ogni accusa, ridusse la pena di Orofino, ma mantenne la condanna di Profeta e Scarantino, decisione confermata in Cassazione nel 2000.
Il collaboratore di giustizia risultò credibile ancora negli anni a seguire, nonostante sin dal 1995 dichiarato di essere stato costretto a dire il falso durante gli interrogatori.

Si arrivò al 1996.

Nel gennaio di quell’anno, sempre valide le dichiarazioni di Scarantino, si aprì il processo Borsellino bis che vide imputati coloro i quali erano stati indicati come partecipanti alla riunione in cui si decise la strage, come anche gli esecutori materiali dell’attentato (coloro i quali avevano preparato la bomba e chi aveva trasferito l’auto sul luogo del delitto). Molti nomi della Cupola mafiosa furono presenti o coinvolti nel giudizio.
Nel corso del processo Borsellino bis, nel 1998, Scarantino, tuttavia, tentò di ritrattare nuovamente, sostenendo ancora una volta di essere stato costretto alla sua falsa collaborazione da maltrattamenti e pressioni subite nel corso degli interrogatori.
Nonostante la ripetuta ritrattazione, alle parole di Vincenzo Scarantino non si diede seguito e il processo Borsellino bis proseguì, arrivando alla definizione delle condanne degli imputati. Le dichiarazioni di Vincenzo Scarantino, in quel periodo, trovarono tra l’altro un appoggio in quelle di Calogero Pulci, uomo del clan Madonia, che nel processo d’appello sostenne di aver ricevuto una confidenza in carcere da Gaetano Murana, che gli avrebbe raccontato di aver partecipato attivamente all’esecuzione della strage.
Nel 2002 la Corte d’Assise di appello di Caltanissetta considerò attendibili le dichiarazioni di Pulci.

Il Borsellino Bis si concluse quindi con sentenza di condanna degli imputati, confermata nel 2003 dalla Cassazione. Unico assolto Giuseppe Romano che era stato accusato, sempre da Scarantino, di aver partecipazione all’esecuzione della strage.

Si arrivò, quindi, al processo Borsellino ter che, nel 1998, si aprì sulla base delle dichiarazioni di altri collaboratori di giustizia (pentiti) di Cosa Nostra tra i quali Giovan Battista Ferrante, Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi, Calogero Ganci, Antonino Galliano e Francesco Paolo Anzelmo. Nomi eccellenti quelli degli imputati: Madonia, Santapaola, Provenzano, Ganci, Graviano, Lucchese … il gotha di Cosa Nostra venne indicato come corresponsabile nella scelta di mandare a morte Paolo Borsellino. Gli stessi Cancemi e Giovanni Brusca, pur se diventati collaboratori di giustizia, chiamati in giudizio come imputati, in quanto, essendo riconosciuti come componenti delle “commissioni provinciale e regionale” di Cosa Nostra, furono considerati tra i mandanti partecipanti alla riunione nella quale si decise la strage. Tanti nomi, molti di loro influenti e spietati, appartenenti alla Cupola mafiosa, furono messi sotto processo. Tra il 2003 e il 2008, anno della sentenza in Cassazione, si concluse il lungo iter processuale con la definizione ultima delle condanne, molte confermate, altre riviste nei capi d’accusa.

E’ nel 2008 che si aprì un’altra fase cruciale, con delle rivelazioni a smentita della confessione e falsa collaborazione di Scarantino.
E’ infatti nel giugno di quell’anno che Gaspare Spatuzza raccontò di essere stato lui, e non Scarantino, a rubare la Fiat 126 usata per l’attentato contro Paolo Borsellino, con particolari e indicazioni di persone e fatti che convinsero gli inquirenti. Spatuzza indicò anche il garage, vicino via D’Amelio, in cui fu portata l’auto il 18 luglio, in modo che Francesco Tagliavia e Lorenzo Tinnirello potessero preparare l’innesco e l’esplosivo.
Le indagini, sulla base delle dichiarazioni di Spatuzza, si riaprirono e nuovamente Vincenzo Scarantino, con Candura e Andriotta, dichiararono di essere stati costretti a collaborare, dichiarando il falso, dagli organi investigativi del tempo.
Si dovette arrivare al 2013 per una condanna con rito abbreviato per Gaspare Spatuzza e Tranchina, a 15 anni il primo, dieci il secondo, per il ruolo giocato nella strage. Salvatore Candura, collaboratore suo malgrado, fu invece condannato a dodici anni per calunnia aggravata.
E’ a questo punto che si diede inizio al processo Borsellino quater con imputati Salvatore Madonia, Tutino e gli ormai ex collaboratori di giustizia Vincenzo Scarantino, Calogero Pulci e Francesco Andriotta.

di Patrizia Vindigni

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