Cosa rimane del Che, per un quarantenne
Ricordi e considerazioni su Ernesto Guevara a 50 anni dalla sua morte
Ernesto Guevara, El Che, morì il 9 ottobre del 1967, poco più di due anni prima che nascessi. Non posso ricordarlo, come non posso ricordare il carisma che aveva nei suoi contemporanei, perché solo 10-15 anni dopo avrei potuto capire qualcosa. Ma ho avuto la fortuna di vivere gli “anni ruggenti”, quelli della consapevolezza politica del paese e dell’illusione utopistica, in una famiglia in cui a tavola non si parlava di sport o di questioni basilari (quali il cibo, la scuola, la famiglia) ed El Che era di casa, non solo per la presenza di un suo poster “datato” in una speciale e suggestiva cornice. Anche se non ho potuto conoscerne dal vivo la sua epopea, il suo esempio era tra gli elementi dell’atmosfera dell’aria di casa e le manifestazioni a pugno sguainato, portato sulle spalle dei compagni d’avventura (politica) dei miei, le ricordo cantando canzoni degli Inti-Illimani o quelle inneggianti a lui…
Non ho conosciuto El Che, ma grazie ai miei genitori, in qualche modo l’ho potuto vivere e tenere dentro, come un esempio, un ideale e non solo un’icona da portare sulla maglietta.
Quando penso alle generazioni successive alla mia, ma anche ai miei coetanei che venivano da “famiglie più normali”, a volte penso che possano aver vissuto più facilmente, che possano essere incorse in meno dubbi, meno rimorsi di coscienza, all’idea d’avere avuto “tanto”, mentre c’era chi aveva “niente”; penso a tanti che potevano permettersi di parteggiare per gli americani, senza dubbi, senza incertezze, inconsapevoli di quanto la CIA e Jalta avessero plasmato il mondo in cui vivevamo, troppo in fretta dimentichi di stragi di stato e di trame oscure: mi viene da sputare la mia sentenza, sulle loro vite facili, senza consapevolezza dei moderni Optimates (…chiamiamoli reazionari…) o del pericolo dell’olocausto nucleare, a rendere meno lieve anche il semplice dormire. Ma poi penso al fatto che loro non abbiano conosciuto nemmeno lontanamente la figura de El Che, che non abbiano mai scaldato le loro anime alla fiamma di un ideale e mi rendo conto che, seppure più facile, la loro vita sia stata immensamente più vuota.
E, in attesa che i figli più piccoli maturino un po’ di più, per far loro meglio comprendere la sua figura (tanto distante da questo mondo iperconnesso), mi accontento di ricordare la scintilla negli occhi di quello più grande quando, quasi vent’anni fa, una signora cubana ad uno stand di un Festival de L’Unità, gli raccontava del grande cuore de El Che, dell’ideale che non morirà mai.
No, io appartengo ad una generazione che non può aver conosciuto El Che, ma a distanza di cinquant’anni, penso che avrei voluto essere tra i suoi compagni, a combattere per qualcosa di più di ciò cui anelano i nostri contemporanei, beni materiali, status symbols, esempi di egoismo consumistico. E, quella scintilla che colsi negli occhi del figlio grande, mi fa sperare che anche per le nuove generazioni possa essere così, che la fiamma de El Che non si spenga mai…
di Mario Guido Faloci