L’inferno è fatto di abitudini

L’Abitudine mi aveva preso tra le sue braccia e mi accompagnava fino al mio letto come un bambino piccolo.

(Marcel Proust)

Si è rotta la maniglia di una porta.

Non una porta qualunque, da dove entra ed esce un solo impiegato, ma la porta che mette in comunicazione due reparti operativi: si apre e si chiude almeno duecento volte al giorno.Da lì passano tutti: magazzinieri, decoratori, impiegati, grafici, elettricisti, stampatori, addetti alle pulizie, clienti, fornitori.Al posto della maniglia è rimasto un buco di ferro nel telaio della porta. Solo infilando un dito nel buco slabbrato la porta si apre.Sistema scomodo, per certi versi anche pericoloso.

La maniglia rotta è lì, coperta di polvere: nera, smontata in due parti, riposa su uno scaffale come una reliquia, memento mori, inutile ricordo di un mondo migliore in cui porta e maniglia stavano insieme non per caso, ma per necessità, memoria di quando le cose andavano meglio, un reperto da esibire in una ipotetica collezione di utensili di una volta, come una vecchia falce fienaia buona solo per i musei delle civiltà contadine. All’inizio s’ era dato per scontato che qualcuno l’avrebbe sostituita. Non sembrava nemmeno un’operazione difficile, un normale svolgersi della minuta manutenzione aziendale, ma per una di quelle inspiegabili stanchezze che assalgono l’uomo in certi momenti della storia e lo rendono cieco di fronte all’evidenza, tutto è rimasto com’era. Sono passate settimane e poi mesi: la maniglia giace e chi lavora si dà pace, si abitua ad aprire una porta agganciando col dito un buco di lamiera, con un gesto ogni giorno più sottomesso, ogni giorno più insensato. Quel che importa è passare indenni.

L’abitudine stende sulla nostra intelligenza un uniforme e spesso strato di vernice, inibisce la nostra capacità di percepire il succo del mondo.

Con la facilità con cui ci abituiamo a sopportare la lampadina fulminata che non si accende più, l’orologio a muro scarico che non segna più l’ora, la portiera della macchina che non chiude bene e tutti i piccoli errori della vita quotidiana, ci stiamo abituando a sopportare orrori  ben peggiori: le donne morte ammazzate solo perché sono donne, le colpe sempre nere e il nero fascismo che avanza, gli slogan del ventennio, i migranti morti affogati per non morir di fame, i figli degli zingari sparati, i toni violenti, le minacce, i ricatti, le promesse mancate, il delirio dei finti scienziati, le suole sui documenti, il brutto sui muri, l’ignoranza, la superficialità. Sotto i nostri occhi sta accadendo una cosa straordinaria: un Paese prostrato, in ginocchio, affamato, che avrebbe bisogno di ridisegnare insieme la geometria della distribuzione della ricchezza e insieme ripartire dai valori fondanti della civiltà, si sta ciecamente abituando all’odio, alla divisione, alla rabbia, convinto che dall’abitudine si possa uscire indenni.

L’intelligenza (diceva Pasolini) non avrà mai peso, mai nel giudizio di questa pubblica opinione. Neppure sul sangue dei lager, tu otterraida uno dei milioni d’anime della nostra nazione, un giudizio netto, interamente indignato:irreale è ogni idea, irreale ogni passione, di questo popolo ormai dissociato da secoli, la cui soave saggezza gli serve a vivere, non l’ha mai liberato.

di Daniela Baroncini