Modello di istruzione in Italia. Una proposta

Questo articolo riprende il punto del precedente Educazione in Italia. Riflessioni sullo stato dell’istruzione nel nostro paese nel quale erano state gettate le basi per una critica al sistema italiano di istruzione superiore ed universitario. Alla domanda se sia migliore il sistema nordeuropeo o in generale anglosassone, e perché eventualmente lo sia rispetto al nostro, non era ancora stata data una risposta vera e propria, cosa che si proverà a fare in questo articolo conclusivo.

Si è visto come il nostro sistema, eclettico e chiuso su sé stesso, cerchi sbocchi al di fuori del paese per non morire di asfissia, e come a tale scopo sia poi costretto a snaturarsi per adattarsi al modello egemone, suscitando la domanda: perché non adeguarci fin dall’inizio e modificare radicalmente il sistema? Alla quale va aggiunta una seconda domanda: come, al contrario, diventare noi il modello funzionale e di successo?

La risposta alla prima domanda è che, a modo nostro, ci stiamo provando. E a modo nostro significa in maniera timida e confusa, dannosa e dolorosa. Il tentativo oramai pluridecennale di rendere gli istituti superiori e le università sempre più simili ad aziende, a partire dalla creazione di pseudo consigli di amministrazione, del passare dal preside al dirigente scolastico, con annesse partnership di vere e proprie aziende finanziatrici fin dentro il cuore degli istituti, è sfociato poi nel progetto speculare dell’alternanza scuola-lavoro, manodopera gratuita al servizio del mercato deregolato; del dirottamento dei finanziamenti alle private e paritarie, del tentativo di snellire il percorso delle superiori riducendolo a 4 anni nel tentativo di fornire carne sempre più fresca, e quindi più malleabile, alle fauci di un sistema che non sa che farsene della manodopera altamente qualificata, perché non interessata alla meritocrazia, ma soprattutto perché spesso alle alte competenze corrispondono alte pretese e rivendicazioni. In fondo stiamo, timidamente e maldestramente, tentando di imitare un sistema che non nutre il minimo interesse a farsi emulare: Stati Uniti e Regno unito, in testa agli altri, si vedono da sempre ai primi posti nelle classifiche per le quali essi stessi hanno stabilito le regole. Questo è un vero e proprio brand che attira utenze da tutti gli angoli del globo, pronte anche a pagare per mettere al servizio le alte competenze che hanno maturato grazie agli investimenti dei relativi paesi di provenienza. E questo crea un vuoto a perdere per questi ultimi, e uno smisurato guadagno per quei primi.

Motivo principale per cui non riusciremo mai a competere, e grazie al cielo: perché non dovremmo e non dobbiamo. Il fatto che il cerchio non si sia chiuso significa che abbiamo ancora speranza per invertire la tendenza, e una possibilità per offrire una controproposta, un modello alternativo, di stabilire nuove regole invece di provare a giocare allo stesso gioco. Di qui la prima parziale risposta alla seconda domanda posta più sopra: non dobbiamo cercare di seguire il modello, ma trovarne uno diverso e migliore.

Prima di illustrare la mia modesta proposta, però, credo sia utile prendere in considerazione cosa invece c’è di buono fuor d’Italia, confrontarlo con quant’altro c’è di male invece al suo interno, ed avanzare una prima sintesi.

Sulla scia di quanto detto nel primo articolo, a differenza nostra (almeno per quanto riguarda l’istruzione d’ordine superiore) altrove si tengono in estrema considerazione le più moderne teorie sullo sviluppo e sull’apprendimento, ed il contatto tra il lato teorico e quello pratico è valorizzato in una relazione organica positiva dove a giovarne, almeno il più delle volte, è la competenza e la formazione dello studente, più che il portafogli dell’imprenditore, il quale casomai avrà da giovarne in seguito. Mentre noi siamo fermi, accanto alla svendita delle competenze, al dogma della lezione a senso unico, top-down, della lectio come oro colato da suggere dalle labbra del professore, per poi replicare il processo chini mesi e mesi su quantità spropositate di libri che molto spesso ripetono ciò che è stato già ascoltato a lezione, e sia mai che si entri a contatto diretto con le parole dell’autore: si studia sul manuale mediato e predigerito che spesso è stato proprio il professore a scrivere. Sia ben chiaro, parlo più che altro delle mie materie d’interesse, ma mi risulta che siano poche le eccezioni a tale sistema, e che siano tutte concentrate laddove non si possa fare altrimenti.

Nella mia più importante e diretta esperienza con un sistema alternativo, durante i mesi in cui ho studiato a Praga, ho avuto la possibilità di osservare da vicino un sistema differente. Lì non c’è stato mai un vero bisogno di imparare a memoria alcunché, non ci sono stati manuali, ma contatto diretto con l’autore. Le lezioni erano basate sulla discussione, si partiva dall’idea (inter)personale di un certo argomento, per arrivare solo dopo a scoprire cosa ne avesse detto l’autore. E poi si ridiscuteva ancora, con la guida dell’insegnante. Per verificare che qualcosa fosse effettivamente rimasto, era sempre previsto un test scritto con piccole domande aperte, ed era fondamentale la frequenza al corso. Per lo stesso motivo le classi erano formate mediamente da venti studenti, mai più di cinquanta. Questo significa molte classi per la stessa materia, molti docenti, il più dei quali giovani ma estremamente competenti, ancora nel pieno delle loro ricerche. Tornando alla valutazione, questa era più che flessibile e funzionale al metodo di globale successo: il saggio accademico. Un tale approccio prevede giocoforza che le nozioni non vengano apprese a memoria, considerato che i testi sono liberamente (anzi obbligatoriamente) consultabili durante la stesura; ciò che è verificato è che si sia appreso un metodo, uno spirito critico e una comprensione più profonda dell’argomento, tale da essere funzionale ad analisi, comparazioni, nuove proposte. E allo stesso tempo si verifica l’abilità di sintesi, di decostruzione e costruzione, di organizzazione e di scrittura. Qualcosa che nelle nostre università è completamente assente anche da una qualsiasi facoltà di lettere.

Parlare di questo rende agevole l’introduzione di uno dei miei riferimenti teorici a riguardo, ovvero l’opera dello psicologo Jerome Bruner. Uno dei suoi lavori più illuminanti e più funzionali al discorso, Verso una teoria dell’istruzione, seppur rivolto allo studio dell’educazione nella fase dello sviluppo, funge a mio avviso da fondamentale paradigma per una qualsiasi teoria del corretto sistema generale di istruzione. E di fatto, semplificando all’osso, quello che Bruner ci insegna è che l’apprendimento di un metodo di critica, analisi e sintesi, di una struttura multifunzionale che preveda il contatto diretto con l’oggetto di studio, il pratico e manuale, prima di passare all’iconico e infine al puro simbolismo, sia l’unica arma che abbiamo contro lo studio compilativo e mnemonico di quantità di informazioni che il nostro cervello non è biologicamente in grado di immagazzinare. La “nostra capacità ricettiva è incredibilmente debole, ed è solo grazie a concentrazione e sintesi”, che riusciamo a sfruttare al meglio lo spazio che ci è concesso. La storia dell’uomo è in continua evoluzione e cambiamento, e l’accrescersi delle nuove scoperte e dei nuovi fatti è esponenziale. L’unica alternativa all’essere sommersi dalle informazioni e da questa rapida “esplosione del sapere” cui andiamo incontro è l’acquisizione di “strutture organizzatrici”, di padroneggiare le “prospettive del possibile” oltre a quelle di ciò che è già stato. Voglio sottolineare la parola oltre, perché non penso assolutamente che lo studio approfondito, minuzioso e completo, vada abbandonato. Ma penso fortemente che da solo non basti, che non serva a nulla se non viene dopo l’acquisizione di regole e strutture universali di volta in volta applicabili alla singola disciplina, che ne ricolleghino il significato storico e teorico con la realtà. Non una realtà pratica, perché credo nel sapere utile a sé stesso, ma una realtà di vita, come vero strumento della storia e della società. Di un vero strumento generativo. Citando Bruner per l’ultima volta, “il problema sta nel fatto che i compiti imposti dalla scuola (intesa in senso lato, aggiungo io) spesso non riescono a far leva su quelle energie naturali che stimolano l’apprendimento: la curiosità, il desiderio della competenza, l’aspirazione ad emulare un modello, ed il consapevole impegno ad inserirsi nel tessuto della reciprocità sociale”.

Cosa facciamo invece noi? Condanniamo gli studenti ad uno strano darwinismo dove le capacità di comparazione, analisi e sintesi vengono lasciate al caso dell’innato, mentre si premia e promuove il solo uso e potenziamento della memoria. La contraddizione verrà fuori poi, per esempio, quando si consumano tragedie all’esame di maturità (guarda caso si sta cercando di toglierlo di mezzo), dove chi aveva avuto l’illusione di ottimi risultati e medie altissime, in virtù dell’incoraggiamento ricevuto sulla strada dello mnemonico, si trova ad affrontare il mostro dell’ansia e dell’attitudine alla plasticità, al cosiddetto problem solving, e così emergono altri che spesso superano nel voto finale i colleghi più illustri, dando vita a celebri scontri e crisi isteriche. E lo stesso problema si riscontrerà qualche mese più avanti, ma ribaltato. Di fronte ai test di ingresso alle facoltà a numero chiuso, si torna a qualificare lo sforzo mnemonico, si annulla spesso la capacità analitica e attitudinale, si screma chi non ha la capacità di ricordare quantità spropositate di nozioni che poi saranno le stesse che i vincitori, una volta iscritti, saranno obbligati a studiare di nuovo per gli esami. Gli unici salvi da questa carneficina, come detto prima, saranno i miracolati in virtù di qualità innate, quelli che grazie a doti personali e biologiche riescono da soli a barcamenarsi tra queste due diverse competenze, in un rinnovato gioco alla sopravvivenza del più adatto. Un sistema incomprensibilmente illogico.

Ora, in realtà, ciò che io propongo è piuttosto banale, ed è già possibile trovarlo in Italia. Il problema è che viene limitato a pochissimi ambiti, e non è reso disponibile a tutti. Una sintesi tra il metodo praghese o anglosassone integrato con la nostra propensione allo studio profondo e ad ampio spettro è possibile, ma finora limitato a piccoli corsi di studio a numero chiuso come ad esempio logopedia. Non si allarga, questa offerta, a tutto il resto del sistema, perché non si vogliono sprecare risorse in settori ritenuti meno utili. E qualcuno più propenso al complottismo direbbe che forse non c’è la volontà programmatica affinché il sistema della pubblica istruzione (denominazione sparita oramai anche dal nome del Ministero) sia realmente completo e competitivo.

Rimane il fatto che ciò che io propongo è realizzabile solo attraverso un reale e consistente sforzo economico di investimento nel sistema dell’istruzione, come succede in altri paesi, che porti le classi a svuotarsi perché moltiplicate esponenzialmente nel numero, anche nei settori del sapere meno prettamente remunerativi, perché abbiamo esempi di paesi in cui anche questi settori alla lunga diventano tali, vedi il fatto che per lo studio della storia della lingua italiana, bisogna rivolgersi ai tedeschi.

Ma anche se così non fosse, anche se nel breve periodo questa inversione di tendenza non risultasse fonte di guadagni, sarebbe alla lunga l’origine di un nuovo modello culturale, di una nuova alternativa per il mondo.

Come il resto d’Europa smise di seguire il modello culturale egemone italiano da un certo secolo in poi per perseguirne uno personale che ha poi imposto al mondo fino ad oggi, sarebbe ora di smettere di inseguire e di sintetizzare un nuovo modello alternativo, e vedere di tornare ad essere seguiti.

di Simone Cerulli

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