Il mondo come volontà e falsificazione

Nel 1819 il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer dà alle stampe il suo capolavoro Il mondo come volontà e rappresentazione che influenza poi la filosofia successiva di Friedrich Nietzsche e la psicologia di Freud e Jung. A due secoli di distanza – mantenendo per ora fermo il suo concetto di volontà – dovremmo cambiare quello di rappresentazione. Cambiarlo in falsificazione. Schopenhauer intende che il mondo che noi esperiamo non è la vera realtà, ma solo un’illusione, una rappresentazione soggettiva che noi ci facciamo di ogni oggetto, ossia del mondo stesso come oggetto a noi esterno. Tra noi e la vera realtà è frapposto il Velo di Maya, una definizione che egli deriva dal pensiero orientale, che nasconde ai nostri occhi la verità. La volontà, invece, è per lui una forza cosmica, della natura tutta, senza spazio, tempo e alcuna direzione, che ci sovra-determina, ci muove ciecamente, tragicamente, a rinnovare la vita per la vita, con tutto il dolore e la violenza che essa si trascina dietro. Per questo – afferma Schopenhauer – dobbiamo sottrarci a tale volontà attraverso il suo principio opposto la nolontà. La verità è dunque al di là sia della rappresentazione, sia della volontà e solo il saggio, il genio può attingerla. Questo è il punto cruciale che Nietzsche critica del suo maestro, rovesciando la nolontà in una così totale e incondizionata accettazione della volontà, da chiamarla volontà di potenza. Noi diciamo sì alla volontà, ossia alla potenza della vita, incluse la sofferenza, la violenza, la morte, il nulla che essa comporta. Solo questa cosciente adesione e ricerca della volontà di potenza può condurre l’uomo oltre l’uomo stesso, ossia all’Übermensch, all’Oltreuomo (o Superuomo, come erroneamente è ancora oggi tradotto e pericolosamente equivocato).

Perché oggi, però, possiamo dire che la rappresentazione della realtà si è fatta pura e semplice falsificazione della verità, aggiungendo anche che dalla volontà di Schopenhauer a quella di potenza di Nietzsche si è passati direttamente alla volontà di prepotenza. La nostra rappresentazione soggettiva – così come si è andata modernamente evolvendo negli studi scientifici – è sempre qualcosa di inconscio, ossia di non voluto consciamente. All’opposto, la falsificazione che vediamo in atto – macroscopicamente nel web – è qualcosa di lucidamente voluto e sistematicamente, metodicamente, accanitamente perseguito. Dietro il fenomeno, il velo della rappresentazione, una verità da ricercare, s-velare permane. È compito del saggio o dello psicoterapeuta raggiungerla e portarla alla superficie della conoscenza umana. Nella falsificazione è il concetto stesso di verità che ingombra, che deve essere brutalmente spazzato via. La verità me la faccio io, giorno per giorno, istante per istante, in relazione ai miei desideri, alle mie mere pulsioni del momento, senza alcuno scrupolo di oggettività e tanto meno di moralità. La verità sono direttamente io, in quanto atto immediato di falsificazione: falsus ergo sum. Per essere fake, falso non ho bisogno di avere una laurea, un diploma, un attestato in qualcosa, di capire davvero qualcosa, di avere un mestiere. No, spesso mi è sufficiente essere un mero muro di rimbalzo di altri fake-maker e fake-news. La volontà di potenza nietzschiana si mostra nel suo paranoico aspetto di delirio di potenza, anzi, di prepotenza, la quale, infatti, tanto più triviale, volgare è, tanto più soddisfa il proprio smisurato io-fake.

La falsificazione è un concetto introdotto nella seconda metà dello scorso secolo dal filosofo tedesco Carl Popper che lo applica alla scienza. Sappiamo che siamo nel campo della scienza e non di una qualche fede o dell’occultismo, ecc., solo se un asserto è falsificabile. Se affermo “Dio esiste”, non posso dimostrare né che sia vero né che sia falso. Ma due scienziati possono affermare due diverse strutture dell’atomo, di cui una è la falsificazione dell’altra, si ha la possibilità di arrivare poi a determinare con certezza quale sia quella vera. Nella scienza tutto deve poter essere falsificabile, proprio per arrivare alla verità. Eppure è proprio la scienza contemporanea, quella più avanzata – dall’astrofisica alla biochimica – a demolire strutturalmente qualsiasi principio di verità. Sulla scia di Popper altri filosofi della scienza, allontanandosi anche notevolmente da lui, elaborano un modello di verità quale “protocollo” di procedure scientifiche che si attestano su stadi, livelli provvisori, meramente strumentali di verità, ossia in attesa di essere superati e falsificati da nuove acquisizioni, altrettanto strutturalmente provvisorie. Anche la scienza oggi per procedere in avanti ha bisogno di sbarazzarsi di qualsiasi verità ontologica, ossia data e acquisita una volta per tutte, come base granitica su cui poggia l’oggetto mondo. La scienza più di ogni altra attività umana ha bisogno di fabbricarsela da sola e poi falsificarsela – di volta in volta – una transitoria verità con la v minuscola. E questo non sarebbe possibile se esistesse, invece, una stabile verità con la V maiuscola.

Ecco allora che – nell’epoca della crescente egemonia della tecno-scienza sul mondo che conduce al tramonto quella novecentesca della politica – proprio quest’ultima tenti di sfruttare la potenza dell’apparato tecnologico, elettronico, digitale per fabbricarsi da sola una coscientemente, spudoratamente falsa verità che le permetta ancora di perseguire i propri vecchi scopi di dominio sul mondo. Così la vera dimensione delle fake news non è tanto quella di singoli o di tribù limitate di troll collegati tra loro in rete, quanto quella degli Stati hacker, con in testa i loro leader, presidenti, capi istituzionali che guidano la guerra cibernetica, trasformando i vecchi apparati dei servizi segreti in mega call-center di fabbricazione, captazione, intreccio e smistamento delle più colossali o raffinate bufale planetarie.

Qualcuno dice che la disinformazione – la disinformazia come ai loro tempi la chiamavano i sovietici – c’è sempre stata, fin dai tempi della guerra tra greci e troiani. Sì, però oggi assume una dimensione immediatamente globale, perché la rete non ha più alcun confine né fisico interno, né mentale interiore, mentre prima giocava proprio sulla separazione geografica e informativa, cognitiva tra le diverse realtà nazionali, regionali, locali. Inoltre lo scenario odierno è totalmente mutato. La posta in gioco – come detto – è l’eclissi della politica stessa, la quale non si rende neanche conto che più usa il mezzo tecnologico più lo rafforza, lo potenzia e diventa essa uno strumento provvisorio, transitorio dell’altrettanto permanentemente transitoria verità tecno-scientifica. È il sottosuolo che inesorabilmente ingoia il sovrastante, non cosciente piano di superficie.

di Riccardo Tavani

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