La Russia e il doping di stato, cosa non torna
La notizia era nell’aria, ma il Cio ci ha messo più di un anno per emettere la sentenza. La Russia non parteciperà ai Giochi olimpici invernali del 2018 di PyeongChang. Gli atleti potranno partecipare sotto il nome di “Olympic Athlet from Russia” ma niente inni nazionali, niente divise ufficiali e, soprattutto niente bandiera.
Alla base delle indagini del Comitato ci sono le rivelazioni di Grigory Rodchenkov, ex direttore del laboratorio anti-doping russo e che oggi è sotto protezione negli Stati Uniti. Quello che è emerso è un vero e proprio sistema di doping di stato, una rete capillare di controlli mascherati, esami alterati, atleti costretti a prestarsi ad un gioco criminale. La Russia dovrà pagare 15 milioni di dollari, una multa che corrisponde alle spese del Cio per i controlli indipendenti. Sarà sospesa la federazione di Mosca mentre Vitaly Mutko, ministro dello sport ai tempi di Sochi e vice primo ministro dei Mondiali in estate, è stato radiato per sempre dalle Olimpiadi. L’inchiesta, condotta dall’avvocato canadese Richard McLaren, ha dimostrato “un sistema di coperture che risale almeno al 2011 e che è proseguito” e si è evoluto “in una vera cospirazione istituzionalizzata e disciplinata che puntava a vincere le medaglie”.
Qualcosa però non torna nel meccanismo di questa inchiesta e lo si intuisce dalle parole di Putin alla nazione, che sanno di sconfitta a metà: “Devo dire subito che in parte è colpa nostra, perchè abbiamo creato un pretesto per la squalifica. Ma credo anche che quel pretesto non è stato usato nel modo più leale possibile: nessun sistema legale in nessun luogo del mondo stabilisce la responsabilità collettiva”. Perchè quello che manca, nell’inchiesta del Cio, è la diretta incidenza del governo russo nel sistema viziato dello sport. Manca la consapevolezza che dietro il programma non ci sia solo una figura o un ministero, ma tutto il palazzo di potere moscovita. Sembra tirare un sospiro di sollievo anche il tabloid SportExpress: “accettare le accuse e le punizioni è difficile, ma il destino dei nostri atleti e il preservare un posto nella famiglia olimpica è importante”.
Una punizione a metà, che mira all’orgoglio degli atleti, al loro legame con la nazione, la patria. Ma che non si indirizza verso i veri gestori della macchina statale del doping. Per ora il Cio ha guardato più ai burattini, che ai burattinai veri e propri.
di Lamberto Rinaldi