Gioco a sommatoria inferno

Non può non affiorare alla coscienza la domanda se valga ancora la pena di scrivere, dire qualcosa. Come nel film di Gabriele Salvatores del 1977, Nirvana, il personaggio virtuale di Solo (Diego Abbatantuono) si rende conto di essere dentro un anello digitale a ripetizione infinita, in cui è destinato a essere fatto fuori, per poi ricominciare a vivere soltanto per essere eliminato di nuovo – ab infinitum. Per un virus che lo infetta, Solo riesce a entrare in contatto con Jimi Dini (Christofer Lambert), il programmatore che ha progettato lui e il game, e gli chiede di essere cancellato. Il gioco per lui non ha proprio più alcun senso. Meglio dis-apparire, essere scontornato dal plasma elettronico di ogni fottuto display e dispositivo. Non quel film è un allegoria del presente, ma il presente è direttamente quel film. Con metropoli e periferie multietniche in assetto di caos espanso, con lo spazio-tempo sclerato, e l’intero respiro infettato dell’Anima Mundi.

Si ha un bell’implorare: “Restiamo umani; torniamo umani; non smarriamo l’umanità!”. L’ umano,  però, è proprio questo. Un gioco della volontà – da quella di ogni singolo io a quella dell’intera civiltà – di fare gruppo, etnia, società, nazione, alleanza per imporre a scapito d’altri la propria sopravvivenza, e poi plus vivenza, straripamento, potenza. A scapito d’ogni tipo di sottomettibile altro: individuo, popolo, animale, pianta, minerale, idea, sentimento, afflato. A scapito di quell’impalpabile Altro, e però immane, che è l’essere di cui siamo noi stessi sostanza originaria. E non c’è scampo. Anche nell’amare, nel volere il bene, negli ideali belli e nei buoni fini agisce inesorabile la volontà di prepotenza, come ineliminabile fattore caratterizzante l’umano, troppo umano, per dirla con Friedrich Nietzsche. Non dovrebbe più servire neanche la cronaca dei femminicidi di questi giorni a dircelo. La cronaca, infatti, si fa via via consolidata Storia proprio nell’ammassarsi e ammazzarsi, scannarsi dei giorni. Per questo Arthur Schopenhauer parla del necessità della nolontà, non-volontà.

Scrive Walter Benjamin dell’angelo della storia: “Ha il volto rivolto verso il passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente verso il futuro, a cui volge le ali, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo progresso, è questa tempesta”. L’angelo cui si riferisce Benjamin è raffigurato in un piccolo quadro di Paul Klee del 1920 che lui aveva acquistato, Angelus Novus. Suicida nel 1940, mentre fuggiva per non farsi catturare dai nazisti, Benjamin aveva la tela nella valigia, insieme alle sue Tesi sulla filosofia della storia, da cui è tratto questo brano. In epigrafe alla pagina i versi Saluti dall’Angelo, di Gerhard Sholem: “La mia ala è pronta al volo,/ ritorno volentieri indietro,/ poiché restassi pur tempo vitale,/ avrei poca fortuna”.

L’umana, troppo umana Storia è il susseguirsi di questo mutevole innalzarsi e rovesciarsi di contrastanti, belligeranti volontà di sopraffazione. Sopraffatti e sopraffattori si scambiano ruolo e posto, perché momentanei protagonisti e antagonisti, soccombenti e incombenti hanno poca importanza. L’importante è il game, l’anello della volontà immane umana sempre a sommatoria inferno. Lo stesso Tempo, o ciò che con tale nome definiamo, non che è questo scandire di rintocchi a morte tra vittime di ieri che si fanno carnefici di oggi e viceversa, scambiandosi di posizione e funzione come nulla fosse mai esistito prima. Ogni umano ha inciso, e non può non avere inciso in sé tale signum, sigillo della civiltà. Così come ogni singola goccia di pioggia riflette l’intera porzione di cielo da cui scende. Perciò la consapevolezza di questo non può non affiorare alla nostra evidenza e coscienza. E la goccia di pioggia o pianto, di rovina che sale al cielo e vi discende, già farsi canto di diluvio e arca.

Riccardo Tavani

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