Chi rema contro la pace in medio oriente?

L’attacco del 7 ottobre contro Israele, denominato da Hamas “operazione alluvione Al-Aqsa”, ha il triste primato di essere “l’attacco più atroce contro gli ebrei dopo l’olocausto” (Von der Leyen), non soltanto per il numero dei morti, ma anche per la sua disumana ferocia. Per organizzazione, numero dei partecipanti e modalità di attuazione ha le caratteristiche di un atto di guerra. Per altri aspetti (il rapimento degli ostaggi, la sistematica uccisione di civili, donne e bambini compresi, le molte violenze disumane e gratuite) ha le caratteristiche di un atto terroristico: forse il più grave atto terroristico che la storia ricordi. Secondo alcuni membri della Corte Penale Internazionale dell’Aia l’attacco può definirsi un “crimine contro l’umanità”.

La risposta israeliana, a sua volta, ha causato la morte di migliaia di civili, donne e bambini – di nuovo – compresi. Per i sistematici bombardamenti condotti sul territorio di Gaza, è sotto l’attenzione della stessa Corte Internazionale con l’ipotesi di “crimini di guerra”; il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, salomonicamente, parla di “prove evidenti” di crimini di guerra da ambo le parti.

Purtroppo, il conflitto israelo-palestinese dura, con diversa intensità, da almeno un secolo, cioè dall’epoca dei moti del 1920, del1929 e del 1936-39, quando ancora non esisteva uno Stato israeliano, ma solo comunità ebraiche, in parte autoctone, in parte di recente immigrazione, spesso mal sopportate dalla maggioranza araba. Ancor oggi non si riesce a vedere la fine di un conflitto che rischia di espandersi e, comunque, interroga e addolora anche coloro che, come noi, vivono lontano da quelle terre martoriate.

Ed è un conflitto che ci pone davanti diversi paradossi, sì da essere emblematico delle contraddizioni dei tempi moderni.

Infatti la retorica della politica internazionale non fa che indicare un’unica via d’uscita: la cosiddetta soluzione di due stati e due popoli, sostenuta sia da paesi occidentali, sia da paesi arabi. Tale ipotesi, indicata dall’ONU con la risoluzione 181 del 1947, fu però rifiutata dai palestinesi e da quasi tutti i paesi arabi, che preferirono piuttosto la guerra e attaccarono il neonato Stato israeliano con il dichiarato intento di annientarlo. Tutte le organizzazioni, che rappresentano (più o meno democraticamente, perché non elette o elette molto tempo fa) il popolo palestinese, dichiarano lo stesso intento in modo più o meno esplicito nei loro statuti: anzi il motivo primario della loro esistenza è la “distruzione dello stato sionista”. L’OLP, dopo gli accordi di Oslo, promise di eliminare dallo statuto l’esplicito riferimento all’eliminazione di Israele, come premessa ad una soluzione pacifica, ma purtroppo non lo ha mai fatto.

Anche il governo Netanyahu non sembra molto favorevole a questa soluzione, che invece altri governi israeliani hanno sostenuto e propugnato.

Se è abbastanza evidente che la realizzazione dei due stati e due popoli non sia molto a portata di mano, è anche vero che i rappresentanti palestinesi e diversi governi arabi loro alleati l’hanno sempre osteggiata, come se non più del governo Netanyahu, ma sicuramente più degli israeliani in generale.

Al di là di questo, il perdurare del conflitto vede due ulteriori fattori causali, il primo dei quali è di ordine geopolitico.

Subito dopo la guerra, l’Unione Sovietica fu tra i principali sostenitori della nascita dello stato di Israele. Era forte la componente socialista nelle comunità israeliane, anzi i Kibbutz erano e sono tra le poche realizzazioni reali dei principi social-comunisti più autentici (proprietà collettiva dei mezzi di produzione ed uguaglianza dei membri) ed esistono fin dal 1909, cioè da prima della rivoluzione di ottobre. Con l’acuirsi della guerra fredda, ben presto l’URSS cambiò idea e cominciò a sostenere economicamente, politicamente e con le armi le organizzazioni palestinesi. A dimostrazione dell’influenza sovietica, sia il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), sia il Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina (FDLP) si dichiarano di ideologia marxista-leninista, nonostante il marxismo sia poco compatibile con la cultura araba e islamica, che sono fortemente identitarie nella popolazione palestinese ed ispirano altre organizzazioni, come Hamas. D’altronde non sembrano compatibili con il marxismo leninismo neanche le ingenti somme di danaro che Arafat avrebbe accumulato per scopi personali, secondo quanto dichiarato da fonti occidentali ma anche da diversi membri della stessa OLP; né l’appannaggio di 100.000 euro mensili alla sua vedova, che il suo principesco tenore di vita a Parigi sembra oggettivamente confermare. Il periodo della guerra fredda ha visto il blocco sovietico alleato con i Paesi arabi in funzione anti israeliana, per evidenti e certamente preponderanti motivi di ordine geopolitico, nella logica dei blocchi contrapposti.

Nonostante siano passati decenni dal crollo dell’URSS, la Federazione Russa è tuttora schierata, di fatto, contro Israele. Il governo russo, che ha schiacciato senza esitazione i tentativi di indipendenza dei popoli ceceno e georgiano, e nega ufficialmente l’esistenza stessa di quello ucraino, dichiara di avere a cuore i diritti del popolo palestinese. Fa una certa impressione sentire Putin che difende i diritti dei popoli, quando ha dimostrato con i fatti che non gliene frega niente. Confesso che lo stesso effetto mi ha fatto Erdogan, che ai curdi vieta persino di parlare la loro lingua e nega il genocidio armeno.

In ogni caso, la contrapposizione geopolitica tuttora esistente non facilita la pace, anzi tende a favorire l’instabilità in tutto il medio oriente, ma per motivi del tutto estranei agli interessi di palestinesi e israeliani.

Un secondo elemento contro le possibilità della pace è, paradossalmente, di ordine religioso. La religione islamica permea e condiziona anche la politica, avendo un evidente valore identitario per la popolazione palestinese, nonchè per quella araba in generale. Ciò è reso particolarmente evidente nello statuto di Hamas. Non si tratta soltanto, come ha ricordato Salvini, di sostenere la cancellazione dello stato di Israele, che pure è vero. Mi riferisco piuttosto all’impianto ideologico su base esclusivamente e fortemente islamista che lo statuto contiene.

Secondo lo statuto non è il popolo palestinese in quanto tale, ma il popolo musulmano ad aver diritto alla terra palestinese ed israeliana. Ciò deriva dalla conquista militare perpetrata nel VII secolo da parte delle armate musulmane del secondo sheik, Omar ibn al Khattab. Quest’ultimo dichiarò, infatti, che la terra doveva rimanere ai conquistatori fino al giorno del giudizio, cioè per sempre, perché secondo la sharia “ogni terra che i musulmani abbiano conquistato con la forza” gli appartiene in eterno (art. 11 dello statuto di Hamas). E quel che uno sheik medievale ha detto quattordici secoli fa, sia chiaro, è legge per sempre.

C’è dunque un primato, per un verso di origine religiosa (l’Islam), per un altro di origine militare (aver vinto una guerra d’invasione). Fortunatamente lo stesso principio non vale per le conquiste da parte di altri popoli: altrimenti, dopo la seconda guerra mondiale, il Giappone non potrebbe esistere, l’Europa sarebbe come la Berlino dell’immediato dopoguerra, e le colonie dovrebbero continuare ad appartenere ai paesi che le avevano conquistate militarmente. Né vale per le terre conquistate da Israele che, si sa, è un popolo di infedeli.

Perciò, citando i versetti del Corano, lo statuto afferma che Israele sarà, prima o poi, eliminato militarmente dai musulmani – unici ad avere un diritto su quelle terre – per volere divino.

È un concetto per noi poco digeribile, al giorno d’oggi. Ed è un concetto che esclude la pace, almeno dal punto di vista di Hamas e dei suoi simpatizzanti.

Bontà sua, però, lo statuto dichiara che Hamas non è antisemita: gli ebrei potranno vivere ed avere finalmente pace in una Palestina riconquistata, sottomessi alla legge islamica. Ma su questo avrei qualche dubbio, visti i precedenti storici. Nella prima metà del novecento gli ebrei non vivevano in pace, ma sotto una minaccia continua: il massacro di Hebron è del 1929, anno in cui fu invocata la guerra santa contro gli ebrei (gli ebrei in quanto tali, perché lo Stato di Israele non esisteva), chiamando i palestinesi alle armi sulla base di fake news inventate per scatenare i pogrom. Ma questo, purtroppo, non è l’unico esempio. Nell’impero ottomano, che osservava la legge islamica, i pogrom contro gli ebrei furono molteplici. Anche dopo la caduta dell’impero, ci furono diversi pogrom nei paesi islamici, che causarono la scomparsa delle comunità ebraiche da quei territori e massicce emigrazioni verso l’allora protettorato inglese di Palestina. E sarebbe bene ricordare che anche per questo nacque l’idea di uno stato israeliano, anzi di due stati e due popoli.

Peccato, poi, che nello stesso statuto (art. 7) si legga: “L’ultimo giorno non verrà finché tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei e i musulmani non li uccideranno, e fino a quando gli ebrei si nasconderanno dietro una pietra o un albero, e la pietra o l’albero diranno: o musulmano, o servo di Allah! C’è un ebreo nascosto dietro di me, vieni e uccidilo!” Qui lo statuto cita un’antica raccolta di Hadith, detti attribuiti al Profeta Muhammad: come si vede, l’antisemitismo arabo esiste ed ha radici molto antiche.

Inoltre, se fosse vera l’affermazione di Hamas di non essere antisemita, non si spiegherebbe la particolare ferocia usata nei confronti degli ebrei durante l’attacco del 7 ottobre: ci vuole odio per fare certe cose, non basta essere in guerra per la propria terra. Bisogna non riconoscere l’umanità del nemico, come d’altronde hanno insegnato i nazisti.

Comunque, se non fosse tragica, la lettura dello statuto potrebbe essere divertente. Per esempio, Hamas considera il “nazionalismo parte integrante del suo credo religioso”, e si vanta che “nulla di simile si ritroverà in alcun altro sistema”. E ci credo! Secondo questo punto di vista la religione ammette, anzi propugna la guerra e considera guerrieri tutti i fedeli (donne e bambini compresi). Perciò “alla donna è permesso combattere anche senza l’autorizzazione del marito e allo schiavo senza il permesso del padrone” (art. 12).

E questo ci ricorda anche che la donna non può fare nient’altro senza il permesso del marito, e che Hamas ammette la schiavitù. Ma questi principi non sono un’invenzione di Hamas, perché vigevano nell’impero ottomano e sono riconosciuti in tutti i paesi che applicano la sharia. Ne sanno qualcosa, prima di tutte, le donne iraniane e afgane.

Per inciso, non posso non osservare che, mentre in Italia si combatte il patriarcato – un patriarcato culturale o psicologico, non certo stabilito per legge – considerato come radice culturale o psicologia del femminicidio, Hamas afferma il patriarcato per statuto, lasciando alla donna la sola libertà di combattere. Ma anche questo non è nuovo, anche nei fatti del ‘29 e del ‘36 le donne musulmane combatterono contro gli ebrei, senza per questo vedersi riconosciuto alcun diritto civile.

Se questi due elementi – la geopolitica e l’integralismo musulmano – rendono difficilissima la pace, ciò non esclude le responsabilità di Israele. Né possiamo dimenticare che nei bombardamenti su Gaza sono morti più di 100 funzionari dell’ONU e due medici di MSF, oltre alle migliaia di civili palestinesi. Inoltre, anche in Israele esistono gruppi fondamentalisti, che propugnano gli insediamenti nei territori occupati e tendono a radicalizzare il conflitto. Ma esiste un ampio movimento per la pace e la riconciliazione, sostenuto anche da intellettuali ben conosciuti fuori Israele. Se la risposta del governo attuale è stata dura e da molti giudicata eccessiva fino a sconfinare nel crimine di guerra, ciò non toglie che nella società israeliana sussistano incoraggianti premesse ad un percorso di pace.

Secondo recenti ricerche demografiche il 65% degli israeliani si definisce non religioso e l’8% ateo: io non ho nulla contro le religioni, ma questi dati ci dicono che il fanatismo religioso non ha un grande spazio e che i valori laici della civiltà sono ben presenti in Israele.

I dati ufficiali del 2022 ci dicono inoltre che il 21% della popolazione dello stato d’Israele è costituita dai discendenti dei palestinesi che non parteciparono all’esodo del 1948. Sono prevalentemente musulmani, ma non mancano cristiani e drusi. Hanno diritto al voto, sono rappresentati in parlamento e dispongono di scuole di lingua araba, anche se, pur con diverse eccezioni, costituiscono la parte più povera della popolazione.

Voglio dire che Israele, paradossalmente, ha più bisogno della pace ed è meno orientata allo sterminio dei suoi avversari, non fosse altro che per il pluralismo presente nella sua popolazione, nel suo mondo politico e nell’opinione pubblica.

Da questi fattori e dal prolungato cessate il fuoco umanitario nasce indubbiamente qualche speranza di pace, ma dobbiamo sempre sperare che il fanatismo religioso e gli interessi geopolitici smettano di remare contro. Del che non sono per niente sicuro.

Cesare Pirozzi

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