Il Papa in Myanmar col silenziatore, ma non troppo
“Walk On”, cantavano gli U2 nel celebre brano dedicato alla ex leader dell’opposizione birmana Aung San Suu Kyi. Chissà se glielo avrà detto pure papa Francesco, visto che la parola più temuta, “Rohingya”, non ha potuto pronunciarla durante la sua visita in Myanmar. Perchè appena giunto a Rangoon non ha fatto in tempo ad atterrare che una delegazione di capi militari gli ha subito fatto visita per ribadirgli quanto già gli aveva consigliato il suo arcivescovo in loco Charles Maung Bo: non dire quella parola per non interferire nella politica interna dello Stato asiatico. Perchè dire “Rohingya”, lì, oggi, equivale a sposare la causa della minoranza musulmana perseguitata dal regime, in un paese in cui la maggioranza della popolazione è buddista.
Per loro è un problema lessicale, per il resto del mondo una crisi umanitaria dalle dimensioni abnormi: 622mila persone fuggite in Bangladesh, che sono andate a sommarsi alle oltre 160mila già presenti nel paese al confine con la ex Birmania. La visita del papa era temuta perchè una parola di troppo avrebbe scosso gli equilibri e rotto il silenzio, infranto il tabù. Per questo gli hanno messo il silenziatore. Francesco alla fine quella parola non l’ha detta ma ha comunque esortato i governanti a costruire una pace fondata sul rispetto di ogni minoranza etnica: chi aveva orecchie per intendere, avrà sicuramente inteso. La stessa San Suu Kyi, premio Nobel per la pace e ora ministro degli Esteri, è stata criticata a lungo per non aver tutelato abbastanza l’etnia che popola la provincia del Rakhine. E alla fine del discorso tenuto insieme al Papa, nel ringraziarlo ha detto: “continuiamo a camminare insieme”. Walk on, appunto.
di Valerio Di Marco