Il polmone verde nelle città, in Italia

In Italia esistono delle città nelle quali, il valore dato al verde pubblico, si respira, letteralmente, nell’aria. Modena, Trieste, Cremona hanno una media di circa 100 alberi ogni 100 abitanti sul loro territorio. Una meraviglia realizzata, nel corso degli anni, che ha reso realtà parte degli obiettivi dell’ UE sulla biodiversità. 

Obiettivi che propongono di piantare circa 3 miliardi di alberi entro il 2030 nei territori dell’unione europea.

In città, come quelle prima elencate, e in altre, come Pordenone, Trento, Reggio Emilia, si può godere di ampi spazi dedicati al verde pubblico, di piste ciclabili, di una raccolta differenziata bene fatta che aumenta la sostenibilità e la bellezza dell’intero agglomerato urbano.

Sono città che raccontano che si può conciliare una vita collettiva, in città, con il verde, sono testimonianze di fattibilità.

L’altra faccia della medaglia è, invece, rappresentato, in molte altre città d’Italia, da una media scarsa di: alberi pro capite, di zone destinate al verde, di raccolta differenziata soddisfacente.

Ogni 100 abitanti, in Italia, secondo i dati di Legambiente, solo 22 città su 105 superano il limite di 30 alberi per abitante. Poche davvero, se consideriamo l’obiettivo dei tre miliardi di alberi  in Europa entro il 2030.

Se poi è giustificabile, in alcuni casi, che alberi siano abbattuti per ragioni di sicurezza (a volte basterebbe una seria e attenta manutenzione per evitarlo), resta incomprensibile il motivo per cui, eliminato il pericolo, non si provveda con immediate sostituzioni. Il verde pubblico, ancora oggi, come anche la tutela della salute dei cittadini, rendere le città vivibili da un punto di vista ecologico, non sono ancora entrati nel sistema che porta voti a chi è più “verde”, più attento ai problemi ecologici. Manca la formazione di una coscienza ecologica, dell’idea di vivere in armonia con il pianeta.

E’ come se la sostenibilità ambientale mancasse ancora di quel diffuso consenso “popolare” che permette di riconoscere nei suoi paladini, gente valida da votare, perché cura l’interesse e la salute pubblici. Il nostro interesse, la nostra salute.

Eppure di inquinamento ambientale si muore. E la morte non arriva solo per gli altri esseri viventi, soggetti di cui , ahimè, ben poco ci curiamo, ma, in questo caso, investe in modo evidente chiunque di noi viva in città inquinate, senza attenzione per la raccolta della spazzatura, senza verde urbano, senza mezzi pubblici utili per gli spostamenti.

I numeri, secondo Legambiente, parlano chiaro: su quattrocentomila morti premature in Europa ben novantamila sono in Italia e, su 98 città monitorate, ben 18 risultano aver oltrepassato i limiti indicati come da non superare per le polveri sottili. In questo calderone compaiono città come Frosinone, Torino, Treviso, Padova, Vicenza e tante altre. E’ vero che i riferimenti sono per alcune zone di particolare traffico, ma è l’impatto finale quello che deve farci riflettere: novantamila morti in Italia sono riconducibili all’inquinamento ambientale. 

Una parte di questi decessi prematuri è causata dallo sviluppo di tumori polmonari.

Su come ciò avvenga, studi recenti indirizzano verso la conclusione che, nel momento in cui nelle cellule si determinano alcune mutazioni genetiche, in tessuti in cui non sono ancora presenti tumori, è lo smog il fattore che, causando infiammazioni, porta, in alcuni soggetti, alla formazione di cellule tumorali determinando la successiva prematura morte. Ed è sempre lo smog una causa di sofferenze importanti ai bronchi. Eppure di questi dati, del loro impatto sui costi sociali e sanitari, delle grandi sofferenze che causano a chi ha la sventura di esserne colpito, se ne parla troppo poco, spesso solo in statistiche fredde, lette e comprese da addetti ai lavori. Voci che urlano nel deserto, poco ascoltate a livello politico, fatte scivolare via come notizie di secondo rilievo. Perché? Perché richiedono modifiche strutturali, cambi di mentalità, rinunce ad una vita governata solo da vendite e consumi. Valiamo in quanto consumiamo, non perché siamo soggetti degni di ascolto e cura. Il costo sociale è come se fosse compreso nel prezzo delle cose che compriamo, per produrre le quali, si inquinano acque, aria, terra, deserti.

Non sono cambiamenti facili, né privi di sofferenza economica. I Governi sono chiamati, per realizzare questa Strategia dell’UE sulla biodiversità per il 2030, a conciliare anche le difficoltà economiche, di chi lavora la terra o produce, secondo criteri, oggi, ritenuti non “sani” per il pianeta, con le finalità poste come obiettivi da raggiungere.

Un esempio recente è dato dalle rivolte degli agricoltori, che, nell’attuazione delle nuove indicazioni hanno sollevato, con forza, la discussione sul rischio di soffocare la loro già difficile economia. E il dibattito sul Green Deal proseguirà nei prossimi anni, tra concessioni e conciliazioni, imposizioni e tentativi di miglioramento. La strada da percorrere si presenta come lunga e impervia, perché i risultati siano stabili e produttivi, in tutte le direzioni. 

In questo difficile gioco di equilibri, in ogni caso, meriterebbero un maggior ascolto gli scienziati che se ne occupano, gli attivisti che da anni gridano le loro, “nostre” ragioni di tutela. Meriterebbe un cambiamento di vita il nostro unico e solo Pianeta.

Patrizia Vindigni

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