London calling

Dall’alto dello Sky Garden, al trentacinquesimo piano del grattacielo Walkie Talkie al n.20 di Fenchurch street, Londra appare per quello che è: un animale vivo di dimensioni colossali che respira nel fiato dei suoi otto milioni di abitanti. E non dorme mai. Un animale del quale percepisci persino i movimenti delle viscere con l’andirivieni sotterraneo dei treni dell’Underground.

“Mind the gap between train and plattform” ripete ad ogni sosta la voce registrata della metropolitana per avvertire i passeggeri dello spazio presente in alcune stazioni fra la banchina e le porte del treno.

Mind the gap, un richiamo che si sente e si risente all’infinito.

E a pensarci bene sono tanti i punti divergenti tra noi e i londinesi ai quali prestare attenzione, prima fra tutti la loro consuetudine con un mondo che si muove contromano. Guidare, attraversare la strada, tenere la fila sulle scale mobili, misurare, pesare, tutto sembra andare a rovescio. Camminare per Londra è destabilizzante come giocare a tennis con un avversario mancino.

Ma anche (mind the gap) bisogna fare attenzione al divario tra il nostro campanilismo e la loro multiculturalità. Perché Londra parla con almeno 20 lingue diverse e il cittadino londinese tipo può avere indifferentemente l’occhio a mandorla o la pelle nera, può essere di origine statunitense neozelandese o nigeriana, turca greca polacca indiana cingalese kenyota o pakistana, italiana cinese, romena. E se noi italiani fatichiamo a costruirci un’identità europea, Londra da fin troppo tempo ne ha una addirittura intercontinentale.

London calling, Londra chiama. Chiama a sé tantissimi italiani, che qui già vivono in più di trecento mila, un numero che fa della capitale del Regno Unito la quinta città italiana dopo Roma, Milano, Napoli e Torino. Migliaia di connazionali che devono prestare attenzione (mind the gap) ad uno stile di vita che niente ha a che fare con quello del Bel Paese. Anziché crescere a pane e nutella i bambini londinesi crescono a pane e pazienza, basta pensare alle loro finestre, quelle così caratteristiche e così belle, coi pannelli mobili, coi vetri riquadrati in legno, le sash windows delle case vittoriane. Non si spalancano mai, anzi. Aprirle è un affare complicato: per farlo serve una chiave a brugola con la quale svitare e poi sfilare i due perni che bloccano i pannelli mobili. Per richiuderle occorre rifare la stessa manfrina, togli la vite/ impana la vite, ammesso che nel frattempo non siano andati persi i perni sottili o la piccola chiave a brugola in dotazione ad ogni finestra. Non stupisce che tutto funzioni, con ordine e calma, in una città dove la ripetizione di questi gesti ( per ogni finestra, per ogni giorno, per tutta la vita) non può non incidere sul carattere dei suoi abitanti.

Nel mio viaggio a Londra di ottobre avevo preso nota di alcuni di questi gap: la pulizia dei treni e delle strade, la gratuità di una certa cultura, la cura quasi maniacale degli spazi verdi, l’ordine, il decoro, la capacità di gestire e far fruttare il Tempo, di cui la città da secoli ha preso possesso col meridiano di Greenwich, l’esubero di gru e di cantieri in costruzione, come se i grattacieli si rifacessero il trucco ogni mattina. E qualcosa mi ero annotata anche della distanza incolmabile tra lo sguardo lungimirante di una Londra mondiale e quello troppo miope della piccola Europa, della vocazione storica inglese ai rapporti finanziari con tutti i continenti e non solo con uno. Nella nebbia che dà ad ogni cosa lo sguardo appannato di un bambino appena sveglio non era difficile immaginare che Londra non avrebbe visto  a breve un cambio al numero 10 di Downing Street e nemmeno un nuovo referendum. Che avrebbe approfittato della sua attitudine commerciale per contrattare la Brexit con Bruxelles fino allo sfinimento così come contratta i pomodori con gli olandesi, il the con gli indiani e la passata di pomodoro coi napoletani. Che con calma, con orgoglio, con pazienza e soprattutto con una certa ostinazione avrebbe continuato a mantenere il divario tra il suo treno in corsa contro mano e la banchina troppo stretta dell’Europa.

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