Una mazurka che vale ogni lacrima

I film documentari hanno una grande, a volte strabiliante forza. Quella di mostrarci persone e situazioni esistenti che rasentano la pura meraviglia. È il caso di questo Le Gran Bal, di Lætitia Carton. Trecento chilometri a sud di Parigi, nella regione della Alvernia-Rodano, c’è uno sperduto paesino di soli 641 persone. Si chiama Gennetines. A luglio di ogni anno diventa una capitale europea. La capitale delGran Bal de l’Europe. È un mirabolante festival di danza popolare che richiama migliaia di persone da ogni zona europea e non solo. Anche virtuosi di ogni strumento – soprattutto a corda e percussione – che risalgono indietro nel tempo, come la ghironda. Sette giorni e otto notti di ballo ininterrotto a ogni ora, senza soluzione di continuità. Ognuno va a dormire quando vuole, nella propria tenda, in un’area attrezzata a campeggio, con bagni e lavandini. Lo stesso vale per il mangiare. All’interno del villaggio danzante non si usa denaro. Si acquistano buoni alla cassa esterna e si spendono dentro per bere, mangiare e altre necessità.

Ci sono diversi grandi tendoni con piste in materiali levigati per i diversi tipi di danze. La mattina qui si svolgono le lezioni di gruppo per imparare polke, mazurke, quadriglie, pizziche, tarantelle, balli greci, valzer dispari, circoli circassiani. Verso le cinque del pomeriggio comincia la vera kermesse danzante. Ci sono persone che vengono qui ogni anno, così da diventare esperte in ogni tipo di danza. Più che altro riescono a toccare l’estasi, la trance, la fuoriuscita dal proprio io, per sentirsi trascinati e ondeggianti dentro il ritmo suadente o frenetico del noi. Si balla con e tra chiunque: provetti, pivelli, e non solo con il sesso opposto ma donne con donne, maschi con maschi. Un maschio può chiedere a una donna di guidare lei, così da poter chiudere gli occhi e abbandonarsi completamente al fluire sensoriale. Una signora – che un’altra donna invita a guidare lei – le risponde: “No, è una vita che mi assumo sempre tutte le responsabilità io, che guido io la famiglia e il lavoro. Qui voglio solo perdermi”. Si va avanti fino alle due, le tre di notte, poi si va sotto le tende, sui sacchi a pelo, sulle amache sotto il cielo. Si continua a parlare, a descrivere le proprie sensazioni, a raccontare delle persone – spesso sconosciute – con cui si è ballato. Una principiante dice: “Ho passato ore senza che nessuno mi invitasse. Ce lo avevo scritto in faccia che ero un’imbranata, una moscia. Piangevo al bordo della pista. Poi è bastata una mazurka… Cavolo!… È valsa ognuna di quelle lacrime”.

Dopo le tre di notte escono dalle tende le ragazze e i ragazzi che hanno dormito durante tutto il giorno. Escono per il boeuf, la faccia notturna del Gran Bal. Comincia una ridda di danze improvvisate di ogni tipo, che fa resuscitare e riuscire dai giacigli anche chi era già a palpebre chiuse. Si contano le poche ore di sonno di cui ci si dichiarare fortunati di aver dormito alla fine del festival.

La regista – accanto ai moventi scatenati, liberatori di gioia, energia e respiri dionisiaci – coglie momenti di coppia e di gruppo davvero suggestivi, vibranti di emozione e sensibilità epidermica. Si riesce a ballare anche al solo suono della voce, senza alcuno strumento d’accompagnamento, o addirittura anche in silenzio, unicamente seguendo una specie di bisbiglio collettivo e il trascinarsi ritmico dei passi sul pavimento.

D’altronde lo sbalordimento ha folgorato in primo luogo la stessa autrice del film. E tale folgorazione ha divelto anche i confini corporei del suo io. Così che le sue mani sulla macchina da presa e i suoi passi negli spostamenti tra le piste si sono fatti occhio. L’occhio danzante di un altro noi: quello che fuori dallo schermo folgora chi guarda seduto nel buio della sala.

di Riccardo Tavani

 

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