L’attesa fagocita l’esistenza
L’attesa. L’annullamento dell’esistenza aspettando ciò che non accade. Mettere in scena un capolavoro del novecento lasciando al pubblico il “capolavoro” non è stato facile, ma Claudio Boccaccini, il regista di Aspettando Godot, al teatro,Vittoria, ci è riuscito senza strafare, con umiltà ha dato grandezza ad uno spettacolo minimale. La bravura di Vladimiro– Pietro De Silva, nella mimica gestuale e facciale, l’intensa partecipazione di Estragone-Felice Della Corte, rendono palpabile l’immobilità di una umanità senza più valori di riferimento. La vita trascorsa in un mare di immondizia,nella vana attesa di ciò che non può accadere senza l’agire quotidiano dei protagonisti.
Tutto è fermo, tutto è immobile. Solo i discorsi sensa senso, annullati da una esistenza mediocre, senza speranza di rinascita o riscatto. Il ripetersi di gesti, all’ombra di un albero spoglio che non può fare ombra, morto da tempo, come loro. Morti che non sanno di essere morti. Neanche l’ingresso di Pozzo-Riccardo Barbera, e Roberto Della Casa-Lucky, il servo cosciente, anzi conoscente, essendo l’unico in grado di pensare ma per questo tenuto al guinzaglio. La paura che il pensiero si riappropri della loro quotidianità.
L’incapacità di essere diversi dalla mediocrità in cui si rotolano immersi fino al collo nel sudiciume che toglie dignità. Attori geniali nella loro interpretazione senza sbavature riescono a trasmettere un moto di ribellione per divenire ciò che non vogliamo essere. Una recitazione sincronizzata che rende il pubblico attento e lo aiuta a prendere coscienza di come siamo piccoli nei nostri giorni fatti di attese. Il pensiero, l’intelligenza, lo stupore quotidiano e soprattutto l’amore, vengono sopraffatti dall’asso ridante rumore.
Un silenzio rumoroso che uccide ogni forma di vita, ogni sensazione d’amore. Tutto ruota intorno alle proprie contraddizioni, frustrazioni, infelicità, solo il servo, cioè il pensiero, non posa mai le valige, sempre pronto a muoversi, in ogni momento, ma per questo deriso,” bullizzato”, offeso. Il pensiero in grado di cambiare lo stato delle cose, di trasformare l’attesa in partecipazione, viene visto come un pericolo che mina l’ipocrisia dei giorni vuoti in cui l’umanità si crogiola. Uno sfruttatopensante, che il regista con tocco sapiente, fa camminare sempre avanti al suo padrone.
Un pozzo di avidità che cerca di risucchiarlo nel fondo oscuro delle quotidiani umiliazioni. La corda al collo, da impiccato, a simboleggiare l’uccisione continua di ogni forma di emozione che non sia la mediocrità e l’attesa del niente. Ogni gesto si ripete, ossessivamente, fino allo sfinimento, tutto è uguale, nulla cambia. Godot non arriva, è il protagonista assente che rende la scena credibile innescando una voglia di ribellione che muti gli eventi. Fino alla scena finale, che ripete la scena iniziale, chiudendo un cerchio senza inizio e senza fine. Rimane uguale l’attesa di Godot che non arriva.
di Claudio Caldarelli e Fabrizio Lilli