Mena Mangal: assassinata a Kabul la giornalista e politica afgana impegnata nel sostenere le donne.

Diventa difficile, spesso, leggere e rendere pubbliche certe notizie, così distanti dal nostro modo di pensare, forse solo apparentemente lontane dalla coscienza, dal senso di libertà, dal rispetto per gli altri, dalla lotta ai diritti umani che alberga in una parte di noi.
In una parte di “noi”. Questa precisazione la ritengo doverosa, perché basta guardarsi attorno con occhi attenti per vedere perpetrate, in altro modo nei confronti delle donne, diverse forme di sottomissione, tirannia, oppressione, dipendenza, costrizioni, divieti e proibizioni. Anche “noi” donne, che viviamo un po’ più in là, culturalmente e geograficamente parlando, stiamo arrancando e arretrando come non mai in una realtà sempre più maschilista e retrograda.
Ma torniamo alla nostra Mena Mangal.
Una vita trascorsa al servizio dei diritti delle donne in un Paese – l’Afghanistan – martoriato su tanti fronti. Dai talebani, dagli attentati e dall’Isis. Questa giovane giornalista era stata sposa bambina e nel 2017 era riuscita a divorziare dopo un lungo e difficoltoso processo.
Persino The Guardian si pone una domanda: perché nessuno ha protetto Mena Mangal? Come mai il suo grido di giornalista minacciata non è stato raccolto a Kabul e nella comunità internazionale?
E si fa strada, sempre più, il problema delle giornaliste minacciate e assassinate in quanto attiviste dei diritti umani, colpevoli di portare avanti un giornalismo al servizio della realtà femminile, in un paese in cui le donne vengono fatte viaggiare nei portabagagli e trattate dai talebani come oggetti, condannate alle frustrate se osano ascoltare musica.
A tutto questo Mena non si era mai rassegnata.
E allora sono arrivate le minacce su Facebook poco prima del suo omicidio ma nessuno è intervenuto, nessuno ha agito. Perché non si trattava di un essere umano ma di un oggetto senza valore. Terribile, agghiacciante, atroce, mostruoso, raccapricciante. E il silenzio ad amplificare urla senza voce.
Mena ha dichiarato di non avere paura e di essere pronta a morire per il suo Paese. Come Daphne Caruana Galizia, una patriota che a Malta è stata fatta saltare in aria con un’autobomba in piena Europa, non a Kabul.
Le istituzioni maltesi invece di proteggerla l’hanno isolata facendola condannare a morte dalle mafie finanziarie politiche. Oggi è allarme rosso sulle giornaliste minacciate. L’indipendenza di una donna-reporter che indaga, pubblica e denuncia, viene vissuta come una doppia minaccia: il sistema di potere la isola perché lei non è asservibile.
E il suo essere donna ricorda ogni momento che ad essere mediocre e corrotto è proprio quel sistema di potere maschilista che falcia vittime ovunque si è realmente indipendenti e incorruttibili. Daphne come Mena, donne martiri della libertà di denuncia, donne che hanno indicato una strada di emancipazione per la democrazia.
Contro le giornaliste minacciate e assassinate si scatena senz’altro una doppia violenza: quella del potere criminale politico corrotto con la potenza del maschilismo patriarcale da Medio Evo.
Mena aveva scelto di raccontare i fatti in un paese compromesso dagli interessi economici e religiosi della dittatura patriarcale. Due trasgressioni: essere donna e per giunta giornalista, sentinella, coscienza critica.
Aveva osato denunciare i moniti di violenza ed aggressività, abusi e prevaricazioni senza esitazione e paura, chiedendo più volte aiuto. Ma non è bastato. Lo scorso 11 maggio è stata uccisa in modo raccapricciante, barbaro, in pieno giorno, in un luogo pubblico.
Mena Mangal è morta ad appena trent’anni sotto i colpi esplosi da uno o più uomini armati, mentre stava per andare al lavoro.
Un atto intimidatorio legato al tentativo di mettere il punto a tutte le battaglie per la parità di genere di cui si era fatta portavoce.
E lascia i brividi pensare che solo pochi giorni prima dell’attacco terroristico aveva scritto su Facebook queste parole: “Mi hanno insultata, ricoperta di fango. E ora vogliono uccidermi. Ma io non mi fermo”.
L’hanno fermata con le armi dell’ignoranza e della barbaria ma se riuscissimo “noi”, donne che viviamo un po’ più in là, culturalmente e geograficamente parlando, a dare visibilità ed eco alle sue parole, a ricordare il suo vissuto, le sue battaglie allora… solo allora potremmo prenderci per mano a formare virtualmente un circolo di solidarietà, sostegno e comunanza affinché nulla venga smarrito.
Perché ricordiamoci che il nostro compito, sempre, è quello di ricordare, di far rivivere le parole di chi, in nome della libertà ha barattato la propria vita. Ricordiamoci che la nostra missione in questo mondo un po’ sbrindellato, sdrucito, lacerato, dilaniato è quella di rammendare pezzi di anime con l’ago di coscienze immacolate e fili di onestà ed umanità incontaminata.
Perché forse saremo pochi ma ogni lungo viaggio inizia con un primo, timido passo.

di Stefania Lastoria