LA VITA AL TEMPO DEL CORONAVIRUS

L’emergenza coronavirus ha ormai un grosso impatto sulla nostra vita quotidiana, forse ancor più grande che sulla nostra salute. Ma ci sta insegnando alcune cose.

La prima è che le frontiere sono un artificio politico, del tutto inutili a proteggere le popolazioni che racchiudono. La Cina è lontana, ma il virus viaggia con gli uomini, che si spostano nel mondo fin da quando hanno imparato a camminare eretti qualche milione d’anni fa. Ma anche i confini naturali sono inefficaci. Le alpi non difesero Roma da Annibale, che le scavalcò con armi e bagagli, elefanti compresi. Il mare non difese l’Inghilterra da Guglielmo il Conquistatore, che la invase a bordo di imbarcazioni che oggi ci sembrerebbero precarie come i barconi libici, ma allora trasportarono un esercito, comprese le armature e la cavalleria. Con buona pace dei sovranisti, potranno mai ostacolare i virus? E poi, l’epicentro europeo è l’Italia o la Germania? Ha importanza? Non è artificiosa anche questa suddivisione?

Chew Sou Zi, amministratore di Xiaomi, azienda cinese di cellulari e simili diavolerie, ha fatto scrivere sulle casse di mascherine donate alla protezione civile italiana: “Siamo onde dello stesso mare, foglie dello stesso albero, fiori dello stesso giardino”. Sono parole di Seneca, scritte duemila anni fa, ma tutt’ora attualissime. Ha così portato due doni: le mascherine e, soprattutto, un messaggio prezioso perché dimenticato. Cina? Italia? Germania? Qual è la differenza? Ci ammaliamo tutti nello stesso modo, resistiamo tutti nello stesso modo. I confini sono soltanto una convenzione, le distanze illusorie. “La terra è un solo paese” aggiungeva Lucio Anneo Seneca alla frase già citata: lo diceva quando la terra sembrava più grande, viaggiare era un’impresa lunga e spesso pericolosa, non c’erano aerei né agenzie turistiche. Oggi dovremmo capirlo molto meglio: la terra è un solo paese, l’umanità una sola famiglia, uno stesso albero.

Ma stiamo scoprendo confini diversi, all’interno della stessa nazione, della stessa città, di noi stessi. Questo confine è invisibile, non ha dogane, ma è di gran lunga più importante. È il confine tra la libertà e il dovere di tutelare il mio prossimo, tra autodisciplina e lassismo, tra prendersi cura e menefreghismo. Questo confine ci difende molto meglio, dal virus come da altre minacce.

Oggi la città è quasi incredibile, più calma, meno rumorosa; anche i romani sono diventati rispettosi, non spingono, non si accalcano, qualcuno indossa la mascherina: sembra di stare a Tokio. Vuoi vedere che il coronavirus è riuscito a renderci tutti più solidali e civili? A farci scoprire il confine vero?

La seconda lezione riguarda il sistema sanitario. In Italia ne abbiamo uno discreto. Nonostante i tagli del personale, l‘inadeguata programmazione dei corsi di laurea e specializzazione, la moda della denuncia facile contro medici e ospedali, i miliardi rubati dalle “lady ASL” note e ignote, ha finora retto l’urto dell’emergenza. Non ci ha chiesto di pagare esami e cure, come sta succedendo oltre oceano. Ha guarito centinaia di malati, curando al meglio anche quelli che non ce l’hanno fatta. Ora in alcune città ha raggiunto il limite. Si è così scoperto che i posti letto attrezzati (cioè dotati di apparecchiature e personale adeguato) non sono infiniti né si improvvisano. Che avere più letti per abitante (magari quanti in Francia e Germania) non sarebbe stato male. Che spendere un po’ più per la sanità (magari quanto in Francia e Germania) non sarebbe stato male.

Magari, non sarebbe male avere degli ospedali o delle corsie “dormienti”, cioè chiusi ma attivabili in caso di calamità o eventi eccezionali. Idea che esiste da decenni, ma non ha mai interessato poi molto i nostri amministratori e politici. Sarebbe meglio che gli ospedali avessero dei letti in più, ordinariamente non utilizzati, e disponibili nelle più gravi evenienze; e non molti letti in meno del fabbisogno ordinario, come sa chi attende anche giorni in un pronto soccorso prima di ottenere un ricovero. Già questo era un segnale d’allarme che nessuno ha ascoltato.

Il guaio è, come sempre, che i politici non pagano mai gli errori che commettono, le negligenze, il disinteresse verso problemi concreti ma elettoralmente poco interessanti. In fondo, rende più assumere un primario amico (o disposto a pagare per quel posto: non crediate che non sia successo) che non curare l’adeguatezza della pianta organica. Per diversi anni non si sono fatti concorsi per medici in ospedale, privilegiando il precariato. Ma i precari non vengono selezionati con un concorso né pagati come chi è di ruolo, pur facendo lo steso lavoro. Così, da un lato si risparmia, dall’altro è più facile fare un favore a un amico. Se la mortalità intraospedaliera in Italia è sempre stata in linea con gli altri Paesi, è solo perché le persone di buona volontà e di grande competenza sono per fortuna la maggioranza, e si prodigano.

Ora la situazione degli ospedali crea qualche ansia, nella prospettiva di un’epidemia imprevista e solo in parte controllabile. Speriamo che si faccia tesoro di quest’esperienza. Ma sono disposto a scommettere: finita l’epidemia, gabbato lo santo.

Non è poi trascurabile l’impatto economico dell’epidemia. Quante aziende chiuderanno? Quanti dipendenti resteranno senza lavoro? Quanto aumenterà il debito pubblico? Ancora non lo sappiamo, ma la lezione da apprendere è chiara.

Prima di tutto, che l’economia ha alti e bassi: non importa se per una crisi finanziaria, uno tsunami o un’epidemia. Per questo uno Stato ha un certo potere di intervento; anzi, un dovere di intervento, anche nelle democrazie “liberali”. Perché, si sa, nei momenti di crisi qualcuno si arricchisce, qualcuno si ritrova sul lastrico. Comunque, chi è ricco può resistere in attesa di tempi migliori, chi è povero no. Allora, niente di male che lo Stato si indebiti per aiutare i più deboli e sostenere l’economia. È, invece triste che si indebiti anche in tempi di “vacche grasse”, come ha sempre fatto il nostro, che ora si ritrova a chiedere ancora più soldi in prestito. A quale interesse? Ancora non lo sappiamo, ma siamo sicuri di un fatto: come sempre, il debito lo pagheremo noi cittadini, non in proporzione alla nostra ricchezza, ma in proporzione alla nostra dichiarazione dei redditi. Il che, come al solito, non è del tutto tranquillizzante.

Da qui l’altra lezione, più difficile da digerire per la politica: quando si può, si deve mettere qualcosa da parte per i momenti di crisi. Vale per le persone e le famiglie, ma anche per i governi.

Infine, ci insegna che esiste una scala di valori. La libertà personale e l’economia possono provvisoriamente cedere il passo al diritto alla vita e alla salute.

Sembra persino ovvio, ma non lo è. È un concetto oggi riconosciuto da tutti e giustamente propugnato dal governo, ma del tutto ignorato per altre situazioni. Mi riferisco, come già ricordato nel numero precedente di Stampacritica, agli 8,8 milioni di morti che l’inquinamento atmosferico causa ogni anno nel mondo. Anche queste persone occupano posti di terapia intensiva, come per la polmonite interstiziale; ma sono molte di più e non costituiscono un episodio che si spera transitorio. Sono, al contrario, un dato costante: ci sono tutti gli anni e in tutto il mondo. Non dovrebbero valere le stesse priorità anche per questa epidemia silenziosa? Ed anche questi morti (ed i malati, che sono ancor di più) potrebbero essere evitati. Ed è la scienza a dircelo (European Heart Journal, 21 May 2019).

Ma oggi il traffico urbano è così diminuito! L’aria della città è pulita e si respira meglio. Sembra di essere negli anni ’50. Vuoi vedere che prendiamo due piccioni con una fava?

P.S.

“È stata un gran flagello questa peste; ma è anche stata una scopa; ha spazzato via certi soggetti, che, figliuoli miei, non ce ne liberavamo più… E in un batter d’occhio, sono spariti, a cento per volta. Non lo vedremo più andare in giro con quegli sgherri dietro, con quell’albagìa, con quell’aria, con quel palo in corpo, con quel guardar la gente, che pareva che si stesse tutti al mondo per sua degnazione.”: così dice Don Abbondio dopo la fine dell’epidemia ne I Promessi Sposi. Ma quello è un romanzo, non dobbiamo farci affidamento. Nella vita reale, l’erba cattiva…

di Cesare Pirozzi