La notte oltre il contagio

I racconti dietro la mascherina

Da giorni l’impulso sempre più prepotente di non rientrare a casa dopo l’ufficio si era instillato in lui. Ogni sera prolungava le ore dietro la scrivania, davanti lo schermo del computer. Dopo lo svuotamento dei cestini da parte del personale di pulizia e – più tardi – le due dita sulla visiera del cappello della guardia notturna che lo salutava nel giro di controllo, si spalancava l’ora più bella: quella della desolazione. C’era una cabina doccia, un tubo asciugacapelli che nessuno utilizzava là dentro. Sarebbe bastato procurarsi una robusta branda da campeggio e un fornello, portarsi un pigiama, un accappatoio, shampoo, rasoio e schiuma da barba. Si sarebbe svegliato beato, lavato, rasato, canticchiando, fischiettando, preparandosi un bel caffè. Dopo essere stato tra gli ultimi, sarebbe stato anche tra i primi, fresco come una rosa, a percorrere quel “giardino dei sentieri che si biforcano” che Luis Borges aveva immaginato in un suo racconto e che era ora la rete, il web, il nostro cieco destino. Non aveva però mai confidato niente a sua moglie, meglio il silenzio stagnante o le strepitanti liti d’abitudine tra loro.

Adesso, a contagio in atto, tutto fu invece detto e fatto. Si inoculò proprio come un virus dentro la sua stanza d’ufficio. Le notti, però, si erano presto dimostrate diverse da come le aveva immaginate. Non riusciva a dormire sulla branda che si era procurato, aveva degli attacchi d’ansia, il respiro straziato. Prendeva a telefonare, a tenere svegli gli amici. Con il prolungamento dell’emergenza nessuno gli rispondeva più; anzi gli avevano bloccato del tutto il numero.

Fu così che una notte digitò alla cieca un numero sulla tastiera del cellulare. Gli parve di non udire neanche una volta il segnale di chiamata che subito una voce femminile rispose dall’altra parte. Lui cominciò a scusarsi, a esporle il suo stato di desolazione mortale, ma lei lo interruppe presto, suggerendogli solo di passare a trovarla. Era una voce calma, profonda, ma come assente, priva di qualsiasi timbro emotivo. Seguì un attimo di silenzio asfissiato, trascorso il quale lei gli dettò il proprio indirizzo.

Neanche si rese bene conto di come fosse arrivato davanti a quella porta, ma l’uscio si aprì, la voce che lui aveva evocato telefonicamente lo invitò a entrare, facendo poi scattare la serratura alle sue spalle. Percorsero insieme un lungo corridoio. Lei era giovane, camminava incerta su un paio di scarpe con tacco alto su un vestito sobrio ma elegante. Un leggero velo nero era poggiato sui suoi capelli e una mascherina dello stesso colore le copriva il naso e la bocca. Indossava guanti neri ricamati, mentre gli occhi erano celati dietro grosse lenti scure. Giunsero davanti una porta socchiusa, dietro cui si scorgeva un chiarore mobile, aranciato. La donna gli sorrise debolmente, invitandolo a entrare, ma lui esitò, avrebbe voluto chiamare la guardia notturna dell’ufficio.

Nella camera, scarsamente arredata, un pesante candelabro illuminava con le sue sette fiammelle un letto perfettamente vuoto e intatto, con un inginocchiatoio posto di lato e un cesto di semplici fiori di campo ai piedi. Lui si sentì afferrare dallo sgomento, ma la ragazza cercò la sua mano e lo fece inginocchiare con lei. Gli disse che suo padre era morto di contagio il giorno prima, e che era stato sepolto senza neanche la cerimonia funebre. Sua madre li aveva abbandonati da molti anni, e lei aveva vissuto sempre attaccata a lui, perché era cieca dall’infanzia e ora rimaneva lì, nel suo buio, a vegliare fino all’alba. Avrebbe poi dovuto lasciare la casa, andare a vivere lontano dai suoi zii paterni. Lui fece per alzarsi, dicendole che doveva telefonare, ma lei lo trattenne. “Rimanga, esco io” gli sussurrò.

Chiamò il numero della guardiola della vigilanza, ma il telefono continuò a squillare a vuoto nel silenzio della notte. Si sentì assalito da una spossatezza mai provata e scoppiò in lacrime, sedendosi sul bordo del letto con le mani al volto. La mattina emerse dal sonno ancora tutto vestito su quel giaciglio, le candele spente, le righe di luce che filtravano dalle imposte. Uscì di corsa e una volta in strada vagò a lungo per la città, inebetito. Lo fermò una pattuglia della polizia. Disse che stava rientrando a casa dal turno di notte. “Rientri subito, allora”. Gli agenti si toccarono con due dita la visiera del cappello d’ordinanza e lo lasciarono andare. “Sì, sto andando – assentì lui –, a casa mia moglie mi aspetta”.

Non sapeva neanche dov’era, che ora era. Tirò fuori di tasca il cellulare, avrebbe dovuto chiamare sua moglie,  per avvertirla che rientrava a casa davvero. Schiacciò invece – senza neanche rendersene conto – il tasto dell’ultima chiamata effettuata. Il segnale di libero non risuonò neanche una volta che subito la stessa voce femminile, con lo stesso tono di poche ore prima, gli disse che se lo disiderava poteva passare di nuovo da lei. Lui emise un flebile “Sì, sto arrivando”. Riagganciò, si chinò alla feritoia di un tombino a pochi passi, lasciando cadere l’apparecchio in un cieco gorgoglìo d’acqua.

di Riccardo Tavani

 

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