La poetessa Widad Nabi e il suo non voler essere definita “rifugiata”
Widad Nabi è una poetessa curdo-siriana, originaria di Kobane, ha 32 anni e vive a Berlino dal 2015. Da quando la guerra l’ha costretta a lasciare la sua terra, dopo un viaggio terribile e sei mesi in un campo profughi è arrivata in Germania. Ed è proprio lì che ha scoperto che la sua vita non sarebbe mai più stata la stessa. Approdata nella terra che avrebbe dovuto rappresentare il luogo della rinascita, ha compreso di essere diventata un numero, quello della sua richiesta d’asilo.
Non più una poetessa, non più una donna, non più un essere umano. Solo una rifugiata. Come se tutta l’esistenza di prima fosse stata cancellata dopo avere oltrepassato il confine. Ed è anche questa condizione parte centrale delle sue poesie, pubblicate in due raccolte in Germania e tradotte in tedesco, francese e inglese.
In un’intervista rilasciata a Vanity Fair il 10 dicembre, giornata mondiale dedicata ai diritti umani, si racconta così:
“Del mio paese non ricordo più nessuna bella immagine, come se il mio cervello, per difendersi le avesse cancellate tutte. Un giorno, ma solo per un attimo, mentre ero al telefono con mia zia ho immaginato di abbracciarla per calmare il suo pianto, la sua voce tremante ma siamo a tremila chilometri di distanza. Una distanza che fa male. Spesso mi chiedono quando si smette di essere rifugiati. Io sorrido. Non voglio essere definita tale ma devo ammettere che non si smette mai di esserlo. E’ una condizione che rimane con te. E’ una sensazione che riprovo ogni volta che vedo una barca piena di migranti, ogni volta che sento il numero di morti e dispersi, ogni volta che l’estrema destra alza la voce. L’asilo diventa una parte della tua identità, quella che a noi non piace, quella parte di cui vorremmo spogliarci ma che esiste. Rimane una parte di noi ed è una parte che pesa.
Purtroppo in questo momento in cui l’identità si basa sulla politica, noi siamo considerati prima di tutto rifugiati. Poi, forse, anche esseri umani.
Non importa se scriviamo poesie, vinciamo premi, dipingiamo, lavoriamo in politica o vendiamo frutta. Non importa se parliamo una o tutte le lingue del mondo. In ogni caso rimaniamo rifugiati, come se fosse una macchia sulla nostra fronte, una gabbia da cui occorre lottare per uscire.
Poi, almeno per me, la poesia è la mia personale consolazione, per la durezza della realtà e della guerra. E’ quel luogo in cui persone di tutti i colori, nazionalità e religioni possono incontrarsi senza farsi del male. Una nuova terra che ha i colori della pace e della condivisione”.
Quando le si chiede del giorno in cui ha lasciato Aleppo, in Siria, Widad Nabi smette per un attimo di parlare. Si ferma, osserva un angolo di cielo attraverso la finestra, sembra avere la necessità di mettere a fuoco alcune scene che le scorrono nella mente e dare loro voce.
Riprende a parlare: “Ero davanti la frontiera di bab al-Salama, a terra c’erano migliaia di borse, migliaia di persone che stavano fuggendo dall’inferno della loro casa. Mi chiedevo, cos’avranno messo nelle loro valigie? Cosa li accompagnerà nel loro viaggio? Quali sono le cose che hanno più valore, dopo che hai lasciato dietro di te la tua terra, la tua vita e i tuoi ricordi? Erano tutti arrabbiati perché volevano andare via velocemente e allo stesso tempo piangevano. Per un attimo ho immaginato che tutto il mondo si stesse muovendo, come se la vita fosse solo una partenza. Nella mia valigia avevo messo due felpe, una foto di mio padre che era morto, il mio passaporto e la carta d’identità. La foto e i documenti li ho persi in mare durante un tentativo di traversata. Arrivata in Germania ho avuto bisogno di molto tempo per capire che da quel momento in poi sarei diventata solo un numero, solo una rifugiata. Una persona senza lavoro, senza lingua, senza famiglia, senza amici. È stato come scoprire, all’improvviso, di aver perso tutta la mia vita precedente, in un attimo.
Giorno dopo giorno ho curato le mie cicatrici, ho imparato la lingua, ho iniziato a lavorare e ho trovato una casa. Oggi ho un bar preferito qui in città, un gruppo di amici, una mia piccola nuova terra. Ma continuo ad avere paura, perché la voce dell’estrema destra in Germania ci ricorda che niente è stabile. Durante gli anni della rivoluzione e della guerra ho cambiato più di sette case, tantissimi Paesi, mi sentivo come se l’unica costante nella nostra vita fosse la valigia.
E ora, se ripenso alla mia terra, provo solo tanta rabbia per tutti. Dalla politica degli Usa che ha causato la devastazione siriana, all’Unione Europea che non si è opposta. Sono arrabbiata con i Paesi che parlavano di diritti umani, rivoluzione e giustizia. Non sento più la loro voce. È davvero grave che l’Europa sia così debole.
Scrivere non può salvare nessuno ma dobbiamo continuare a farlo per chi è morto, dobbiamo essere la loro voce. Tenere vive le loro storie. È un atto di resistenza anche questo. Mi sento un po’ un raccoglitore di testimonianze.
E quando capita di vedere il pubblico commuoversi durante la lettura di alcuni miei testi, sento che la poesia può far comprendere a molti il dolore degli altri.
Tante donne mi hanno abbracciata, in solidarietà per me e il popolo curdo. Anche questa è una consolazione, che porta speranza.
Adesso lo so con certezza. Scrivere poesie è uno strumento per arrivare agli altri, al cuore a volte nascosto di estranei e allora nulla di ciò che faccio può essere considerato vano. Sarà forse una piccola cosa, ma toccare sensibilità altrui non è mai stata una piccola cosa. Ecco perché scrivere è importante, perché è utile e terapeutico per se stessi e al contempo è la medicina necessaria a curare cuori malandati o mai usati.”
di Stefania Lastoria