Memoria sempre, la storia di Umberto Pace

Gli ebrei arrestati nella provincia di Viterbo, come effetto delle Leggi Razziali, furono in tutto 11. 5 nel capoluogo, 2 a Bolsena e a San Lorenzo Nuovo, 1 a Graffignano. E un altro ancora a Faleria, oggi paese di 2 mila abitanti, 40 km a nord di Roma.

Si chiamava Umberto Pace, era nato a Roma il 28 novembre 1880, e lì viveva insieme alla moglie, Rosina Bondì, e i figli. Cosa ci facesse a Faleria quel giorno me l’ha raccontato una fonte di prim’ordine: mia Nonna Palmira, che il momento dell’arresto, avvenuto il 2 maggio 1944, quando aveva 13 anni, se l’è visto davanti.

Era con Zia Elena, la sorella che aveva 7 anni di più e sarebbe morta nel dopoguerra per meningite a 22 anni, e Zia Armanda, che di anni in più ne aveva tre. “Je stavo sempre ddietro e nun me volevano, perchè edero munella. Stavamo a passeggio lì ppe Santa Nicola, do mo ce sta la Posta. Lì a quello muro do gireno pe Cargata c’era tutto o seguito di’ fascistoni de Faleria, insieme a o’ maresciallo, un panzone che ‘nte dico”.

Umberto Pace, 64 anni, stava tornando da Calcata, dove era andato a comprare qualcosa alla borsa nera per la sua famiglia: pane, latte, uova, “perchè la fame, bello de nonna, edera brutta”. Passa dall’altro lato della strada, quasi per nascondersi: sarebbe dovuto arrivare a Rignano Flaminio per prendere il treno e tornare a Roma. “Se ne stava guatto guatto, ma ha trovo un malincontro. Uno de questi inizia a fa: “Maresciallo, le presento un ebreo!”, lo pia per colletto e lo porta davanti ar carabiniere. “Signore mi lasci andare per cortesia, ho famiglia, mi stanno aspettando”. Gnende da fa, se lo so portato”. La sorella di nonna, “che edera sveglia”, prova a intervenire. “Io ghj dicevo: “zitta! Statte zitta!”, se te sentivano te purgavano, te menavano. Prima non edera come mo, prima c’era o fascismo”.

Umberto Pace venne arrestato, portato al carcere di Regina Coeli e poi spostato a Fossoli, in provincia di Modena. Qui, il 26 giugno 1944, sul convoglio n.13, partì per Auschwitz, dove arrivò quattro giorni dopo. Senza tornare mai più. Insieme a lui trovarono la morte la sorella, Celeste, e il figlio Armando mentre l’altro figlio, Salomone, arrestato e deportato a marzo, riuscì a sopravvivere.

La storia di Umberto Pace non finisce qui. Perché ha un altro pezzo. Stavolta bello, stavolta di coraggio. Un pezzetto che torna alla luce grazie a Tiziano Valerio Severini che ricorda il racconto di sua Nonna Ascenza:

Questo ebreo deportato non era da solo, ma lo precedeva a Faleria un suo amico, anche lui ebreo, portando cinturini di cuoio e articoli simili, da barattare con generi alimentari. Quando si venne a sapere dell’arresto, una donna di Faleria, vedendolo nel vicolo di casa sua, chiamò di corsa quest’altro uomo, che si avvicinò pensando di poter barattare qualcosa. La donna invece gli raccontò di quanto successo a Santo Nicola, avvisandolo di essere in pericolo: per la paura gli caddero per terra tutte le cinte che portava in mano, e iniziò a disperarsi sicuro di non avere possibilità di salvezza. Il marito della donna però non ci pensò due volte, lo prese e lo chiuse dentro la cantina, per accompagnarlo di notte a Morolo, dove prese il primo treno riuscendo a tornare a Roma. I due faleriani erano Salvatori Fiorino e Di Mario Florentina, padre e madre di mia nonna, che racconta anche come passata la guerra, quest’uomo si fosse riuscito a salvare ai rastrellamenti, e tornò a Faleria per ringraziare chi lo aveva salvato da una morte sicura. Venne a Faleria anche il figlio dell’ebreo deportato, per vedere da vicino i luoghi dell’arresto e colui che collaborando aveva condannato a morte il padre. Gli fu indicato mentre stava seduto in piazza, a leggere il giornale, ma il giovane si limitò a guardarlo per non compromettersi e scendere agli stessi livelli di un assassino, che non si pentì mai di quanto fatto, tanto che passata la guerra, della famiglia di mia nonna disse tranquillamente che ad averlo saputo, avrebbe fatto deportare anche loro”.

Due storie, di indifferenza e di coraggio, due storie di scelte, di odio e di vita. Due storie portate avanti e riscoperte grazie agli archivi digitali (i dati sono presi infatti dalla Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea) e quegli archivi umani che sono i nostri nonni, i nostri “vecchi”. E che noi dobbiamo saper custodire, ricordare, narrare.

di Lamberto Rinaldi