Le atrocità a sua insaputa

Un uomo qualunque. Un uomo senza qualità. Un uomo normale, talmente normale da essere inconsapevole delle sue azioni. Nella “banalità del male”, si evidenzia il tratto più pericoloso di Eichmann: la sua assenza di pensiero e l’implosione della coscienza. Al teatro Belli di Roma, a Trastevere, va in scena “la banalità del male” tratto dal libro di Hannah Arendt, filosofa, emigrata in America, che racconta il processo Eichmann tenutosi a Gerusalemme nel 1961.  Protagonista Anna Gualdo, nelle vesti di Arendt in una recitazione talmente intensa da trasportare il pubblico in una aula universitaria, dove, con emozione e commozione nella voce e negli occhi, riesce ad abbattere le barriere del tempo e dei luoghi. Per una ora tutto diviene 1961, tutto diviene aula di tribunale, tutto diviene incapacità di comprendere le tesi di una filosofa che capovolge il concetto di giustizia, così come fino ad ora era stato considerato.

Eichmann era colpevole della sua incapacità di pensare al male che cosavano le sue azioni, talmente normale e senza qualità, da sentirsi assolto dal male stesso, non considerando l’azione come inizio di una conseguenza. L’implosione della coscienza, nel gerarca nazista, si era assopita non lasciando spazio alla consapevolezza, allo scrupolo, al senso di colpa. Questo, la Arendt ha definito “la banalità del male”, obbediente allo spirito della storia, Eichmann era diventato un esecutore meccanico di ordini. La mediocrità con cui agiva, non lo rendeva un mostro rispetto alle mostruosità che esse determinavano. Scrive la Arendt: “Quando io parlo della “banalità del male” lo faccio su un piano quanto mai concreto. Eichmann non era uno Jago né un Mchbeth, e nulla sarebbe stato più lontano dalla sua mentalità che “fare il cattivo” come Riccardo III, per fredda determinazione”. Su questo si basa la riflessione filosofica, su questo fa leva il sentimento della Gualdo che si commuove, quasi piange, e trasmette questa passione, di una grande verità rovescia, agli spettatori in religioso silenzio per tutta la durata dello spettacolo. Simile, anzi non simile, ma talmente se stessa da essere due donne in un’unica donna: Gualdo-Arendt.

Eichmann, così come lo descrive, non aveva nulla di malvagio, non aveva intenzioni di compiere il male: “Egli non capì mai cosa stava facendo…Non era uno stupido; era semplicemente senza idee (una cosa molto diversa dalla stupidità) e tale mancanza d’idee ne faceva un individuo predisposto a divenire uno dei più grandi criminali della storia”.

Su queste frasi, iniziano le feroci critiche alla Arendt che viene accusata di assolvere, di giustificare, di svalutare quanto accaduto. Niente di più distante da quanto la Arendt volesse dire. Una filosofa riflette e fa riflettere. Così accade che il concetto di giustizia ordinaria, usata per condannare a morte un uomo normale, senza qualità e senza pensiero, diviene una giustizia ingiusta, incapace di cogliere il dramma degli esseri umani, che sempre più spesso compiono atti disumani, inconsapevoli della disumanità che stanno determinando. Così accade che la “banalità del male” è quanto di più pericoloso possa presentarsi per l’uomo sulla scena della storia. L’uomo qualunque, senza qualità e senza pensiero, che obbedisce supinamente allo spirito del tempo, è il vero pericolo.  Eichmann era un uomo assolutamente normale, ma questa “normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme, poiché implica…che questo nuovo tipo di criminale…commette i suoi crimini “a sua insaputa” in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce male”.

Claudio Caldarelli

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