Una questione privata

Per la quarta volta il romanzo postumo di Beppe Fenoglio trova la via dello schermo cinematografico. Cosa c’è in quelle pagine letterarie degli anni cinquanta del secolo scorso che può rappresentare non solo un tratto del nostro carattere nazionale ma anche una sua drammatica attualità? Attualità che proprio l’immagine sullo schermo, come movimento del presente, della vita nella nostra percezione più intima, all’occhio della coscienza, dovrebbe mostrarci. Italo Calvino traccia un paragone tra la follia d’amore del partigiano piemontese Milton e quella dell’Orlando Furioso ariosteo. Questo porre però la propria esistenza sul crinale scabroso tra l’amore per la libertà e quello per una donna lo ritroviamo anche nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo. La guerra che si deve combattere per la propria terra ha un suo più lacerante volto nella guerra d’amore per quella che si ritiene la propria donna. Milton è riconosciuto dai suoi compagni come uno dei più valorosi partigiani delle Langhe, ma lo rende folle il dubbio che non sia riconosciuto in amore dalla bella e sfuggente Fulvia. Proprio come nella dialettica hegeliana sul desiderio umano di riconoscimento, la sua guerra partigiana diventa sì una questione privata, ossia ancora più visceralmente “di parte”, ma nel senso esistenziale-universale della sola vera lotta per la vita o la morte. È la lotta per la stessa conquista della verità, anzi dell’unica che conti.

Nel loro film, Paolo e Vittorio Taviani allargano così il conflitto bellico tra partigiani e camice nere a quello esistenziale tra mondo e uomo. L’odissea dolorosa di Milton tra la grande scena delle montagne piemontesi che lo travalicano è sempre avvolta dalla nebbia della memoria, dello stordimento, dello smarrimento. E Milton stesso finisce per lasciare poco alla volta la fedele compagnia del mitra in spalla, smettere i suoi abiti di combattente, indossare quelli da civile, perdere anche l’ultima pistola alla cintola, per restare solo in pantaloni e maniche di camicia, come un uomo qualsiasi. La sua fuga tra le spalle poderose dei massicci alpini non è tanto contro la morte da piombo delle pallottole, perché implora che una gli trafigga direttamente il cervello. No, la sua è una fuga dal tarlo del dubbio, dalla sofferenza umana che proprio nell’amore svela all’improvviso il volto di una guerra senza pace, senza possibilità di vittoria o di sconfitta, che non può essere davvero combattuta ma che non si può neanche disertare. Proprio come il teatro bellico del mondo.

Pur nell’aperto scosceso e umido delle valli e degli alpeggi, il movimento è come se a tratti si arrestasse, quasi a far sentire meglio la maschera degli attori, il fondale teatrale della messinscena, il dramma senza tempo della rappresentazione. Come se nel personaggio Milton agisse un insensato caos che abita originariamente ogni uomo e che solo nella pagina letteraria o nell’immagine cinematografica può ritrovare una sua precaria ricomposizione o un senso provvisorio della vita.

di Riccardo Tavani

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