“Follow the money”: perché l’Italia stringe accordi con l’Egitto e non pretende la verità per Giulio Regeni?

Giulio Regeni era un ricercatore friulano di 28 anni, dottorando dell’Università di Cambridge, illustre esponente della “fuga di cervelli” italiana. La sua passione era il commercio ambulante egiziano e il lavoro dei sindacati, impegnati in quel momento a riorganizzarsi sotto il regime di Al-Aisi. È in questo contesto che Giulio vuole portare avanti il suo lavoro di ricerca: parte per Il Cairo, inviato dall’università inglese, in stretto contatto dalla Gran Bretagna con la docente Maha Abdelrahman, sua tutor in questo viaggio.

I genitori hanno avuto un ultimo contatto Skype la sera del 24 gennaio. Dal giorno dopo si perdono le tracce di Regeni. In Egitto però il 25 gennaio non è un giorno qualsiasi: trattasi dell’anniversario della rivoluzione contro Hosni Mubarak, ex presidente egiziano. Per dare un’idea, il 25 gennaio 2015 tutto l’Egitto scese di nuovo in piazza: a fine giornata si contavano 15 morti e 35 feriti.

Di questi giorni cruciali c’è una data ancora più importante: il 23 gennaio, quando viene registrato l’ultimo video di Regeni. Quella sera Giulio incontra Mohammed Abdallah, portavoce del sindacato degli ambulanti, una pedina fondamentale della sua ricerca e forse nella sua morte. Attraverso un giro partito da Cambridge, fino ad una Ong, Regeni viene messo in contatto con Abdallah, il quale non vede di buon occhio il fatto che il ricercatore non sia egiziano, ma si offre comunque di accompagnarlo tra i mercati della capitale. Nei vari incontri che seguiranno, Giulio parla a Mohammed della possibilità di avere a disposizione un finanziamento di 10 mila sterline. Tuttavia in seguito Regeni si troverà spesso nella condizione di dover spiegare ad Abdallah che la concessione o meno dei soldi non dipende da lui e di certo questa cifra non può essere usata per scopi personali. Il mancato finanziamento incrina il rapporto tra i due. Per sua stessa ammissione Mohammed Abdallah ha chiarito alle autorità di aver venduto Giulio agli apparati di sicurezza egiziani. Saranno proprio loro a chiedere a Mohammed di registrare, con una telecamera nascosta, i suoi incontri con il ricercatore.

Il 27 gennaio viene denunciata formalmente la scomparsa di Giulio Regeni: a dire il vero il funzionario dell’ambasciata italiana si reca al commissariato di polizia la sera del 26 gennaio. Gli viene risposto che quella sera non è possibile presentare alcuna denuncia. Inizia un’estenuante trattativa che porta a ufficializzare la scomparsa solo alle 3 del mattino. Altrettanto difficile sarà ottenere una copia della denuncia.

Si presume che Giulio Regeni sia stato ucciso tra il 31 gennaio e il 2 febbraio. Giorni che i medici legali hanno sintetizzato nell’espressione “varie ondate lesive”. Hanno parlato di un “corpo martoriato”, di cui non è stata risparmiata neanche una parte. Gli inquirenti incaricati delle indagini hanno delineato una serie di “torture” inflitte con coltelli, bruciature di sigarette, contusioni, “senza alcun disturbo”: condizione che porterebbe ad una “organizzazione statale o parastatale”.

Il 3 febbraio 2016 il corpo di Giulio Regeni viene ritrovato ai margini della superstrada Alessandria-Il Cairo. È nudo dal bacino in giù. Ai genitori, invitati a “non dire niente”, il figlio non viene fatto riconoscere in Egitto: “Posso vedere almeno i piedi?”, chiede Paola, la madre. “Meglio di no, signora”. Il riconoscimento avverrà solo a Roma. Su che basi al Cairo l’hanno identificato come Giulio, si domanda Paola Regeni, che dopo aver appreso della morte del figlio ha mandato un messaggio alla professoressa Abdelrahman: “Non sapevi che era pericoloso mandarlo in Egitto?”.

A marzo 2016, nella capitale egiziana, muoiono in uno scontro con la polizia diversi componenti di una banda di rapinatori. Vengono trovati in possesso dei documenti di Giulio Regeni: “Quale criminale – si chiedono al Servizio Centrale Operativo di Polizia – custodirebbe una prova tanto schiacciante? Probabilmente erano una copertura dei veri responsabili della scomparsa di Giulio”. Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, lo scorso marzo ha chiesto di interrogare dieci, tra ufficiali e sottoufficiali, che hanno depistato le indagini. Alcuni di loro sono indagati dalla procura de Il Cairo per l’omicidio di cinque esponenti della presunta banda di rapinatori di Giulio.

La procura di Roma ha chiesto di poter interrogare per la seconda volta Maha Adbelrahman (la donna si è già sottratta a giugno 2016). Questa volta però la docente ha risposto: “Il nostro Istituto non ha ancora ricevuto richiesta formale: confido di riceverla il prima possibile”. La professoressa sembrerebbe quindi disponibile: potrebbe spiegare perché un altro istituto britannico ha cercato di inviare un ricercatore italiano in Egitto, ma quando è stato chiesto di avvisare le autorità egiziane l’università si è tirata indietro.

“Omettere di informare un proprio dipendente su eventuali rischi, in Italia, è passibile di arresto con pena tra i sei e gli otto anni”, dichiara il generale Dino Tricarico, ex consigliere per la sicurezza di Palazzo Chigi e presidente della Icsa, società che si occupa di intelligence. Aggiunge Tricarico: “Sono convinto che Regeni e altri sono stati inviati in Egitto per scopi di intelligence”.

Perché Maha Adbelrahman vuole parlare (forse) solo ora? Che fine ha fatto Mohammed Abdallah e perché nessuno lo sente, lo cerca? Perché il ministro egiziano della produzione militare ha annunciato un accordo con una società italiana?

di Irene Tinero

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