Il sol dello specchietto retrovisore

La sera dello scorso 1° maggio hanno trasmesso in tv Habemus Papam. È l’ultimo vero grande film di Nanni Moretti. Insieme a un importante filosofo del linguaggio, Paolo Virno, ne scrivemmo allora – nell’aprile 2011 – un pezzo elogiativo, subito dopo averne visto l’anteprima stampa, alla presenza dello stesso regista. Scambiando qualche parola con lui, gli dicemmo che avremmo giudicato l’opera, non l’autore. Precisazione sempre attuale, soprattutto oggi. Sui social, infatti, si è addirittura letto che chi critica Il Sol dell’avvenire,  il film di Moretti nelle sale in questi giorni, appartiene in realtà alla schiera degli “odiatori di Nanni”. D’altronde si sa che l’idolatria estetica è la continuazione del fideismo religioso con altri mezzi. Eppure, proprio con quel film di una dozzina d’anni prima mostra impietosamente la realtà del confronto con quello odierno. Una tessitura narrativa e d’immagine raffinata, avvolgente. L’intervento diretto nel film del regista – nei panni di uno psicologo – era tutto rivolto a mostrare la vera faccia del rito, splendori e miserie dei suoi protagonisti in porpora, ignari persino della regola aurea non solo nello scopone scientifico: quella dello spariglio. Talmente tutto così lucidamente tratteggiato, che il film, l’opera in sé, non rifà la Storia con i se, non ne modifica il passato, ma la anticipa in direzione del futuro. Esattamente due anni dopo l’uscita del film, infatti, Papa Benedetto XVI, al secolo Joseph Ratzinger, annuncia le sue dimissioni da Pontefice.

A modificare per via cinematografica la Storia, ossia il passato storico come riportato sui libri, ci aveva già pensato un tre lustri fa Quentin Tarantino con Bastardi senza gloria. Il film, infatti, mette in scena l’uccisione di Hitler da parte di questo reparto di ebrei americani ingloriosi. E lo fa attraverso un tale parossistico profluvio di fucilate, mitragliate, incendi ed esplosioni, da mostrarci l’irrealtà della scena: la quale, inoltre, si svolge significativamente in un teatro. La stessa cosa fa poi nel 2012 con Django Unchained. In C’era una volta Hollywood, con una accresciuta qualità artistica, salva Sharon Tate dal folle massacro inflittole dalla banda Mason. L’intento di spingere la violenza fino alla soglia del parossismo, però, non risponde solo alla necessità di mostrare, mettere in guardia lo spettatore che ciò che sta vedendo non è la realtà così come storicamente attestata, ma appunto la pura messinscena di un impossibile scena da parte del regista. Questo perché davvero molti potrebbero credere che Hitler sia stato realmente ucciso, o il negro Django si sia veramente liberato del suo padrone schiavista, e Sharon Tate realmente scampata dall’inferno scatenato dai satanisti dentro la villa di suo marito Roman Polanski. No, questo uso iperbolico della violenza ci vuole dire che comunque la Storia in sé è una violenta interpretazione del potere dominante un’intera civiltà. La volontà, la follia di potenza fa violentemente la Storia non solo producendone i fatti, ma soprattutto la loro interpretazione. Un film può essere allora in sé un’opera di giustizia. Disloca la Storia lungo un asse in cui tutti gli elementi artistici, narrativi, di senso e d’immagine tessono tra loro un rapporto di reciproca giustizia, che tocca la dimensione più profonda dell’esistenza, dello spirito e della materia. In questo il cinema, l’opera d’arte può svelare un’altra linea della Storia e della sua interpretazione su cui riunirsi e camminare.

Tutto questo Tarantino non lo proclama, non lo urla direttamente nei suoi film, ma lo mostra attraverso la lingua per immagini del cinema: inquadrature, sequenze, scene, luci, suoni, movimenti della macchina da presa, montaggio. Ancora prima, però, già Marco Bellocchio con Buongiorno Notte, addirittura nel 2003, aveva modificato sullo schermo la storia del rapimento Moro, mostrandoci la sua liberazione. E anche qui su uno sfondo di violenza, dato che questa non è certamente solo l’apparire di armi che sparano. Scrive Murakami Haruki in 1Q84: “La violenza non assume soltanto forme visibili, e non sempre dalle ferite scorre il sangue”. Anche un discorso sulla violenza, su fatti di violenza è spesso violento, perché vuole perentoriamente imporre ciò che ritiene la propria verità, mentre è solo la propria volontàd’interpretazione. Questo, però, non è solo un fatto individuale, o di gruppo, ma d’un’intera cultura. “La civiltà ‘ha ragione contro’ la violenza – dice il filosofo Emanuele Severino – ‘solo’ se riesce a essere violenza più potente”.

Il sol dell’avvenire, nella sua struttura, è un triplice avvitamento di meta cinema, ossia di film in un altro film che noi poi vediamo come film finale sullo schermo. 1) C’è un film su un circo ungherese in zona Quarticciolo a Roma nel 1956, 2) sul cui set del 2022 un immaginario regista di nome Giovanni, interpretato dallo stesso Moretti, interviene continuamente per esprimere le sue personali convinzioni e contraddizioni, 3) e lo svolgimento di  questo film nel film viene a costituire il terzo film, che il regista reale Nanni Moretti ha girato, montato, mixato, firmato e – insieme a Fandango e Rai Cinema-01Distribution – prodotto e distribuito, e anche proiettato come esercente nella sua sala romana del Nuovo Sacher.

Tre livelli concentrici di meta cinema per asserire le teorie morettiane in maniera prevalentemente verbale, ossia per asseverare moralisticamente sopra le righe del cinema. Asseverare che lui si può permettere di fare la storia con i se, quando non può certo millantare di essere il primo ad averlo fatto. Asseverare lezioni sulla violenza, facendolo meramente co-asseverare da volti della tv che non si capisce quale competenza abbiano in materia, per non parlare poi di quella cinematografica.

Il sol dell’avvenire, tra l’altro, è anche il titolo di un documentariorealizzato nel 2008 da Gianfranco Pannone sulle Brigate Rosse. Certamente le vicende segnate da quel gruppo armato, soprattutto la fine tragica comminata ad Aldo Moro, hanno tracciato un confine storico. Il secolo breve, col successivo crollo del Muro di Berlino, si è repentinamente serrato, squarciando un’era di incertezza che ha via via paralizzato la sinistra, in ogni sua plurale espressione e coniugazione. Nanni Moretti, però, per procedere in avanti nella Storia mette a fuoco lo specchietto retrovisore del film su cui sta girando un film alla fine del 1956. A novembre di quell’anno l’Armata Rossa invade l’Ungheria per stroncare l’insurrezione popolare scoppiata proprio contro l’Unione Sovietica. Il Partito Comunista Italiano, di cui nel film si intravede il mitico Segretario Palmiro Togliatti, si schiera fedelmente con i carri armati invasori, invece che con la rivolta ungherese. Anche qui, dunque, il film modifica successivamente un fatto storico determinatosi sempre su un atto di violenza. Anzi, sulla violenza al suo massimo grado di follia: quella della guerra di uno Stato, addirittura di una super potenza atomica contro la società civile.

Ma qual è la differenza di senso tra l’irreale pioggia di piombo e fuoco contro Hitler e l’immaginario cambiamento di linea del Pci sui fatti ungheresi? Che un altro Führer – in sembianze e circostanze diverse – possa riapparire è un pericolo sempre incombente nel cuore stesso delle democrazie occidentali. Ossia, Tarantino mostra sì l’immaginifico storico della sua scena, ma non l’irrealtà di un sempre possibile futuro. È una scena che svela unvel dell’orizzonte. Un partito stalinista come quello di Togliatti, invece, non può più determinarsi nella Storia, tantomeno come minaccia perpetuamente incombente. Il film di Nanni Morettiappare così, sullo schermo della realtà-cinema, solo quale operazione di nostalgia autenticamente irreale, perché rivolta aiprimi ipotetici gioiosi passi su cui avrebbe potuto incamminarsi la sinistra italiana seMa è proprio quel grande striscioneeffigiante Trotskij, davanti cui sfila il radioso corteo terminale, a dirci con commovente ingenuità lo spappolamento d’ogni senso di quel pur ipotetico inizio d’avvenire. E dentro quello schermo-corteo sfila ora tutta la sinistra ex impegnata, neo-mediatizzata e social-profilata, orba d’orizzonte, e una stampa stramazzata sulle poltrone molli del conformismo acritico.

Neanche un astro tramontato, dunque, ma tramortuto. Un accecante barbaglio di rimpianto sullo specchietto retrovisore, proprio di quelli morettianamente da continuiamo a farci del male, ossia da mandarci a sbattere. È dardeggiato, infatti – più che da quello dell’avvenire –, da uno struggente Sol dell’avvenuto.

Riccardo Tavani