Troppi femminicidi. La buona relazione passa dalla “maturità affettiva”
Il ripetersi continuo di fatti terribili come il femminicidio dovrebbe indurre tutti a non fermarsi alla risposta emotiva immediata di sgomento e orrore, ma aprire una riflessione finalmente approfondita su un tema ormai ineludibile: il deteriorarsi progressivo dei rapporti tra l’uomo e la donna, tra il maschile e il femminile.
I rapporti positivi con gli altri dipendono da quella che chiamiamo “maturità affettiva”: una competenza non scontata, frutto di un percorso forse mai del tutto compiuto, e che riceve un’impronta cruciale nei primi contesti educativi e affettivi. Possiamo definire la “maturità affettiva” come equilibrio tra identità e intimità: due parole che sono fonte di equivoco frequente. Identità è percepirsi nella propria unicità, con il nostro valore e i nostri limiti inevitabili; la parola “intimità” designa invece allo stesso tempo qualcosa del sé e qualcosa della relazione: intimità è lo spazio prezioso nel quale riposa ciò che in noi è più personale e profondo, ma intimità è anche la possibilità di mettere in contatto la profondità del sé con la profondità dell’altro.
Coniugare le due cose vuol dire comprendere che ognuno di noi ha un confine personale inalienabile, e saper trovare qual è la distanza “giusta” nelle relazioni: quella che permette vicinanza e calore senza pretendere di violare il confine, di inglobare l’altro, di considerarlo una nostra proprietà o una risposta ai nostri bisogni.
In una buona relazione, il “noi” non elimina e non ingloba l’”io” e il “tu”, ma li mette in un contatto vitale, che arricchisce entrambi; è un rapporto che si fonda sul rispetto, che è una componente essenziale di ogni relazione sana.
Per il maschio, la maturità affettiva che permetterà poi buone relazioni con le donne è un percorso complesso che vede come primo, fondamentale passaggio, quello della separazione dalla madre, primo oggetto d’amore per entrambi i sessi.
Ovviamente non parliamo tanto di una separazione “esterna” quanto di un progressivo affrancamento da ciò che la madre rappresenta per l’inconscio: colei che ha il compito primario di accogliere il bisogno del figlio e di rispondere a questo bisogno con assoluta dedizione.
Nell’inconscio la figura materna è in continuità con l’esperienza della gravidanza, periodo della vita in cui il bisogno (di calore, di cibo, di sicurezza) riceveva risposta senza necessità di alcuna domanda. Nascendo dobbiamo imparare a chiedere per ricevere, e la madre è il primo interprete, il primo mediatore e complice: dipendiamo da lei per la nostra sopravvivenza fisica e psichica.
E la tempistica di questo “affrancamento” è lunga e laboriosa.
Infatti, a lungo continueremo ad aspettarci che la madre (o chiunque abbiamo investito di questo ruolo) sia in grado di comprendere i nostri bisogni ancor prima di noi, che sappia intuire il nostro pensiero, le nostre paure, le nostre necessità.
Per affrancarci dunque da questa aspettativa dobbiamo passare attraverso graduali e fisiologiche frustrazioni: sperimentiamo che la mamma non è perfetta, che serve un linguaggio di gesti e parole per esprimere le nostre richieste. Allo stesso modo i genitori devono educarci a non poter avere subito una risposta, a non poter avere tutto e subito, a condurci mano nella mano sulla strada della vita pronti a ricevere un “no”, una delusione, il tradimento di un amico, un brutto voto a scuola. E’ fin da piccoli che i “no” aiutano a crescere se elaborati in modo sano.
Il supporto cruciale per non rimanere chiusi nella trappola del bisogno, che fa sentire le madri frustrate per la scarsa presenza, per non essere madri ideali che non riescono a tollerare il disamore momentaneo di un figlio arrabbiato per non aver ricevuto ciò che chiedeva, ebbene questo supporto dovrebbe arrivare dalla figura paterna.
La sua posizione nei confronti del bisogno del figlio è fin dall’origine diversa da quella della madre, perché la relazione padre-figlio non si basa sulla simbiosi primaria: il padre riceve sempre il figlio da una donna, e questo gli permette una distanza da lui emotivamente differente. Diventando padre, l’uomo non sposta mai totalmente il proprio baricentro sui figli: non per un egoismo irriducibile (come a volte pensano le mamme) ma per la sua natura di maschio-uomo-padre. Proprio questa natura, però, rappresenta la sua risorsa educativa fondamentale: può porsi, infatti, come ostacolo all’onnipotente voracità del bambino resistendo al timore di perderne l’amore, e può aiutare la donna-madre a non lasciarsi inghiottire dalla relazione con il bambino, mantenendo vivo in lei il desiderio erotico.
Una società che spinge a moltiplicare i desideri e a pretenderne la soddisfazione, che sottolinea solo i diritti, e che mette nell’angolo il maschile e il paterno come istanze colpevolmente frustranti, rende molto problematica l’uscita dalla dinamica infantile del bisogno; abbiamo dunque molti adolescenti che rimangono prigionieri di questa dinamica. Per loro tollerare la fatica, rimandare un desiderio, accettare una frustrazione, diventano spesso richieste insostenibili, ingestibili, gravose, intollerabili e inammissibili.
L’esperienza sessuale introduce una ulteriore complessità, perché il sesso riattiva in noi il mondo fusionale-simbiotico, quando il bambino non conosce il proprio confine e si sente avvolto e contenuto dal sé della madre.
L’esperienza di non poter vivere senza l’altro è una condizione che ci accomuna e che rimane incisa nel nostro inconscio. Da questa condizione, che si fonda su un dato di realtà, impariamo a uscire con il supporto delle persone che ci amano: sviluppiamo le nostre risorse e sperimentiamo le nostre capacità, e la distanza dall’altro, che all’origine percepiamo fuso con noi, si modifica progressivamente fino a permetterci di essere noi stessi. Si tratta di quello che M. Mahler definiva il processo di “separazione-individuazione”: un percorso in cui il piacere di funzionare e diventare se stessi permette di accettare la fatica di rimanere “soli”.
Quello che colpisce negli atti di grave aggressione verso le donne, è che vengono compiuti spesso a seguito di un abbandono, o di una dichiarazione di indipendenza dall’uomo; “senza di te non posso vivere” diventa in questi casi la frase-chiave di una disperazione primaria, che si trasforma in furia distruttiva.
Non c’è, in questa frase e nel vissuto che esprime, alcuna dimensione adulta: c’è la percezione di un vuoto desolante, assoluto, senza soluzione. Quella di un sé primitivo che distrugge ciò che gli sfugge con gli strumenti pericolosi di un adulto. Il rapporto con la donna viene vissuto in questi casi solo all’interno della logica del bisogno: come la madre, la donna deve soddisfare ciò che dal maschio è letto come un bisogno irrinunciabile. Come con la madre, l’altro con il proprio confine e le proprie necessità non esiste, perché il bambino non conosce le necessità della madre e dà per scontato il suo piacere di soddisfarlo.
C’è poi l’idea di come le donne si pongano, si pensa che abbiano desideri uguali e sovrapponibili a quelli maschili e ne sarebbe prova il loro essere seduttive, il loro abbigliamento, ciò che viene identificato come “facile consenso”.
La donna invece tende a cercare l’attenzione e lo sguardo dell’uomo, che sia però uno sguardo che la valorizzi e le dia conferma di sé, in continuità inconscia con lo sguardo di amore e rispetto che ogni bambina desidera dal proprio padre. Lo sguardo del desiderio maschile confonde soprattutto la giovane adolescente, alle prese con le proprie insicurezze, e spesso purtroppo priva proprio di quello sguardo originario di amore e di stima che la fa certa del proprio valore. È dunque tragicamente facile per lei equivocare il desiderio maschile, e confondere la richiesta di sesso con la richiesta di amore.
Oggi è venuto a mancare il tempo in cui il bisogno può trasformarsi in desiderio: il tempo della maturazione e dell’attesa, il tempo del sogno e del pensiero, il tempo dell’immaginazione e della fantasia; tempo che prepara l’incontro tra i sessi, rendendoli capaci di unire passione e amore, sesso e relazione. Non c’è in questo caso più spazio per la relazione, che richiede sempre la percezione dell’alterità e il rispetto del confine.
Ed essendo la famiglia il primo nucleo sociale, è da piccoli che i genitori dovrebbero insegnare ai propri figli il rispetto per se stessi e per gli altri, allenarli alla vita e alle sconfitte, perché poi diventeranno adulti irrisolti pronti a fare esplodere la propria rabbia ed aggressività “repressa” alla prima delusione o negazione.
Stefania Lastoria