Andrea e Singh, morire di discriminazione in Italia
Satnam Singh aveva 31 anni, era in Italia da 3, lavorava a Latina, nei campi, per meno di 5 euro l’ora. Un macchinario gli ha strappato via un braccio e gli ha fratturato le gambe. Il datore di lavoro l’ha caricato sul furgone, insieme alla moglie, e l’ha lasciato davanti casa. Il braccio, tagliato, buttato in una cassetta di frutta.
Singh era solo uno dei tanti lavoratori indiani, oltre 9 mila secondo l’INPS, ma il dato è sicuramente più alto, che lavorano senza contratto e senza permesso di soggiorno. Vengono reclutati dai caporali, che fanno da intermediari con i titolari delle aziende, nei campi di verdura e oltraggi nell’agro pontino. È lunedì pomeriggio quando rimane incastrato in un macchinario utilizzato per avvolgere la plastica. Nessuno chiama i soccorsi, lo farà ore dopo la moglie, a cui era stato sottratto il cellulare. “Il padrone ha preso i nostri telefoni per evitare che si venisse a sapere delle condizioni in cui lavoriamo – ha raccontato Sony, 26 anni, anche lei lavoratrice nella stessa azienda – Poi ci ha messo sul furgone togliendoci la possibilità anche di chiamare i soccorsi”. “Ho solo te, non te ne andare – diceva – Io sono indiana, l’Italia non è un Paese buono”.
Mentre cerco informazioni per scrivere il mio articolo, sui social, mi imbatto in qualcuno che ha deciso di scrivere il nome di Singh e di legarlo a una canzone, “Mio fratello che guardi il mondo” di Ivano Fossati. La ascolto a ripetizione mentre provo a buttare giù qualche riga, più per rabbia che per cronaca. “Sono nato e ho lavorato in ogni paese” dice la canzone, “Sono nato e sono morto in ogni paese” continua. Ed è la storia di Singh e di chissà quanti altri, perduti per sempre, nascosti, buttati. Lavoratori e lavoratrici, uomini e donne che cercavano un futuro, un’opportunità, un’alternativa. E hanno trovato la schiavitù, la miseria, la violenza. La morte. “Mio fratello che guardi il mondo e il mondo non somiglia a te”. Non somiglia neanche ad Andrea questo mondo, 12 anni, soffocato da una corda, nella parte superiore di un letto a castello. Siamo a Roma, in un appartamento Ater di Tor Bella Monaca. Lo trovano la mamma e la sorella, di 16 anni, che chiamano subito i soccorsi. Ma la casa di Andrea è al nono piano, l’ascensore si ferma, l’equipaggiamento e le bombole d’ossigeno del personale medico arrivano troppo tardi.
“Si muore nelle case popolari perché chi le gestisce le considera un costo da comprimere – scrive su Facebook la pagina Quarticciolo Ribelle – Viene da farsi un conto macabro di fronte a questa tragedia: quanto vale per ATER la vita di un ragazzo di 12 anni? Circa 50€. È quello che in media ATER investe per ogni inquilino in manutenzioni, in stabili che crollano a pezzi e con ovvie discrepanze tra il patrimonio da valorizzare nei quartieri in cui si pensa di vendere le case popolari e i quartieri in cui abitiamo noi. Questo vuol dire che se a Testaccio si spende 100€ e a San Saba 120€ in interi palazzi si spende 0. Questo vuol dire che i soldi per gli ascensori non ci sono e se ti senti male, a 12 anni, dentro una casa popolare muori”.
Due storie diverse, quelle di Andrea e di Singh, eppure allo stesso tempo incredibilmente simili. Due vite di che contano poco, che arrivano dai margini, dalle campagne o dalle periferie, dai tendoni di un’azienda agricola o da una casa popolare. Vite che non ci interessano, di Serie B. Vite che si potevano salvare e che si è scelto di dimenticare. Per convenienza, per odio, per razzismo. Vite, anzi morti, e già questo la dice lunga, che faranno notizia per qualche giorno prima di sparire di nuovo, inghiottite dal nulla e dal silenzio da cui provenivano. Vite e morti che invece non dovremmo dimenticare. “Se non c’è strada dentro il cuore degli altri / Prima o poi si traccerà”.
Lamberto Rinaldi