La solitudine del possesso
L’atto d’amore concepito dalla fragilità emotiva, di una donna, incapace di gestire il confronto con gli altri. Una storia dentro la storia. Un corpo dentro una scatola. Una donna dentro il suo cervello con tutta la sua fisicità e carnalità. Una donna che mangia il suo uomo avvolta dalla solitudine disperata del possesso. Nel magma cerebrale di un cubo vuoto, Giada Prandi ci fa mostra ilpieno ipocondriaco della banalità del vivere di una donna senza qualità. La sua arte divinatoria scarnifica l’essenziale, sia quando si graffia le gambe, sia quando la tensione ne esalta i le movenze dei tendini.
Giada Prandi, al Cometa off di Roma esprime la fragilità emotiva di “Anna Cappelli”, il monologo scritto da Annibale Ruccello nel 1986, pochi mesi prima di morire a soli trenta anni. La regia di Renato Chiocca riesce ad estrarre dalla recitazione l’elemento naturalmente umano di un comportamento compulsivo, di cui Giada Prandi, in modo eccellente riesce a trasmettere ad un pubblico “rapito” da questa magnifica interpretazione. Una storia ironicamente drammatica, racchiusa in un cubo senza pareti ma da cui non si può uscire, se non in rari casi. Dentro questo spazio, una delimitazione del cervello, che assorbe il corpo fisico del pensare fino all’atto conclusivo, Giada esprime le idiosincrasie, i tic concettuali, l’avidità del possesso, con una capacità di coinvolgimento del pubblico in un delirio che toglie il respiro.
Giada Prandi non è Anna Cappelli, ma Anna Cappelli è Giada Prandi, grazie alle doti del regista Renato Chiocca e della sua sapiente oculata riduzione, ma soprattutto grazie ad Annibale Ruccello che nello scrivere il monologo, lo ha scritto pensando (pur non conoscendola) ad una donna come Giada Prandi. L’intensa partecipazione con cui si muove dentro un cervello che la rende prigioniera del suo stesso agire, permette a Giada di esprimere con passione la mimica gestuale di ogni movimento. Le labbra rosse, come le unghie, un tocco di maniera dentro una scenografia decolorata, accentuano ogni piccola smorfia, ogni sussulto di malinconica solitudine o di avida possessività. Silenzi eloquenti. Pause improvvise, vuoti e fermo immagine. Gesti, piccoli insignificanti gesti, elaborati con una capacità mimica sorprendente, permettono alla protagonista di entrare nella testa del pubblico, facendogli sentire ciò che non viene detto: l’ossessione che qualcosa ci venga tolto. Giada Prandi è tutto questo e altro ancora. È il filo di perle intorno al collo.
È lo svestirsi per sentirsi vestita, nel mettersi a nudo con sapiente eleganza. In questo folle giro di bambola si dipana il monologo dove il primato dell’apparire e dell’avere annulla l’essere. Per farlo necessita di una figura femminile che vada oltre se stessa fondendosi dentro una banale normalità dove tormento, furia e follia sono una cosa sola come l’incapacità di amare senza avere.
Gesti ossessivi, mentali, corporei, fisici e carnali, permettono a Giada Prandi di provocare eroticamente (nel togliersi gli slip) senza essere volgare, anzi mantenendo una regalità garbata in grado di essere trascinante e sensuale.
E gira gira gira come una bambola, dall’inizio alla fine. Tutto gira intorno a Giada/Anna, fino al compimento ultimo del dramma consumato per amore del possesso: il possesso della solitudine…tu mi fai girar tu mi fai girar come fossi una bambola.
Claudio Caldarelli