Siamo i fratelli di Emmanuel
Emmanuel Chidi Nnamdi aveva 36 anni ed era nato in Nigeria. Meno di un anno fa era stato costretto a fuggire da quella sua terra. Le sue radici recise dalla violenza dei terroristi di Boko Haram. Nessuno sceglie di abbandonare il proprio Paese e di affidarsi alla cieca forza del mare, alla bestiale mano degli scafisti a meno che non abbia altra via di uscita. Emmanuel quella via di uscita non ce l’aveva. Insieme al suo villaggio raso al suolo, l’odio degli uomini gli aveva portato via una figlia di due anni ed entrambi i genitori. Nel viaggio attraverso il mare l’ennesimo orrore: l’aborto forzato della compagna Chiniery. Ma in Italia, forse, esiste ancora una speranza. Emmanuel e Chiniery erano stati accolti come richiedenti asilo, ospiti da circa 8 mesi della Comunità di Capodarco di Fermo, sotto l’ala protettrice di Don Vinicio Albanesi.
Emmanuel muore il 5 Luglio, durante una normale passeggiata con la sua compagna nel centro di Fermo. La donna racconta di essere stata insultata da un uomo. “Scimmia africana”, Emmanuel reagisce, difende la donna che ama, l’uomo lo aggredisce, lo picchia. Emmanuel muore. Passa poco prima che quell’uomo venga identificato in Amedeo Mancini, un contadino trentanovenne, un ultrà della curva Fermana, cresciuto a pane e fascismo. Mancini viene fermato immediatamente, accusato di omicidio preterintenzionale con l’aggravante del razzismo. Mancini ammette l’insulto, racconta di esser stato attaccato per primo da Emmanuel e dalla compagna, di essersi difeso, di non avere nessuna particolare fede politica.
Arriva l’autopsia e sembra confermare in parte la versione dell’assassino. Nessun segno del presunto segnale stradale con cui Mancini avrebbe colpito il ragazzo nigeriano, niente morte per botte. Fatale sarebbe stata la caduta a terra provocata dal pugno sferrato da Mancini, causa della morte una frattura cranica. L’Italia dei facili giudizi, dei processi su Twitter e le sentenze su Facebook si spacca. Si tratta di un episodio di razzismo, no di un incidente, la colpa è dell’immigrato che è nato negro, IoStoConAmedeo. Mentre, a distanza di meno di una settimana, il gip non convalida il fermo a Mancini, e quest’ultimo dichiara di voler lasciare tutti i suoi averi alla vedova di Emmanuel spuntano una serie di supertestimoni. Sei in tutto, pare, di cui due vigili accorsi poco dopo l’accaduto. Pare che al momento del loro arrivo Emmanuel fosse cosciente, pare che le quattro donne abbiano visto tutte la stessa scena: Emmanuel che aggredisce per primo Mancini con un segnale stradale, si allontana con la fidanzata e Mancini che lo raggiunge sferrandogli il colpo fatale. Insiste Don Vinicio Albanesi a chiedere verità, “Emmanuel è stato ucciso dalle botte. L’emorragia interna devastante che l’ha ammazzato non è stata provocata dalla caduta all’indietro ma dal pugno che ha ricevuto in faccia”.
“Emmanuel è stato ucciso perché ha voluto salvare la sua dignità”, ribadisce durante il funerale celebrato nel Duomo di Fermo, gremito di persone accorse a salutare il ragazzo venuto dalla Nigeria. C’è anche la politica: Boldrini e Boschi arrivano nella città marchigiana per la funzione, mentre Salvini twitta l’ennesima sciocca oscenità (“ Gli altri morti dimenticati, magari italiani, valgono meno?”).
In questo parapiglia di accusati e accusatori quello che c’è da chiedersi, forse anche aldilà delle implicazioni giudiziarie, ma da uomini, da fratelli, è cosa avrebbe fatto ognuno di noi al posto di Emmanuel. Quale sarebbe stata la nostra reazione se ancora, per l’ennesima volta, fosse caduto su di noi il disprezzo e l’odio gratuito del prossimo. Quanti di noi avrebbero tollerato quell’insulto abominevole verso la persona amata. Quanto ognuno di noi poteva essere Emmanuel. Quanto cambia realmente lo stato delle cose o, meglio, la percezione che ognuno di noi ha della gravità di questo episodio, il fatto che Emmanuel abbia reagito all’insulto razzista di Mancini. No, non è una giustificazione alla violenza, è una sincera domanda che ognuno di noi dovrebbe porre a sé stesso prima di ergersi a giudice del prossimo. Dopodiché sarebbe il caso di porsi almeno un altro paio di domande. Ma le idee politiche, in tutta questa storia, cosa c’entrano? Cosa c’entra tirare in ballo la questione della gestione del flusso di migranti, o della minaccia del terrorismo nel nostro Paese, cosa c’entra con Emmanuel? Il problema è che le parole hanno un peso e noi abbiamo smesso di rendercene conto.
La martellante, aggressiva, ignorante campagna contro il diverso a cui stiamo assistendo da mesi, in un crescendo di toni sempre più da Ventennio, l’uso inappropriato di termini che apparentemente sembrano scivolarci addosso, ma che entrano più o meno consapevolmente nel nostro modo di vedere il prossimo stanno innalzando delle barriere di odio che diventano via via sempre più palpabili anche in episodi di banale vita quotidiana come poteva essere quello in cui si sono ritrovati Emmanuel e Chiniery. La vera colpa in questa vicenda non va cercata lì solo dove si mostra nella sua evidenza. Di Amedeo Mancini è pieno il mondo. Persone malleabili dall’odio verbale, dall’incoscienza di una politica che nasconde sé stessa ed il proprio vuoto dietro alla fanatismo di razza, che sfrutta il malessere globale di cui è essa stessa responsabile per rinfocolare un odio collettivo che diventa il primo veicolo di strumentalizzazioni.
“Il mio prossimo è anche il migrante che ha fede e nazionalità diverse e che vogliono cacciare”, ricorda Papa Francesco.
Siamo i fratelli di Emmanuel.
di Martina Annibaldi