Europeismo della storia, euroscetticismo della politica

Tutti noi facciamo qualche viaggio, da comuni turisti. È capitato anche a me, e voglio raccontarvi alcune riflessioni, che non ho potuto evitare in questi tempi di “euroscetticismo” e di polemiche sulla brexit.

Sono stato, recentemente, a Londra. Come tutti i turisti, ho visitato i musei di quella città. Già la loro architettura si ispira all’arte greca e romana. Dentro, vi sono tesori d’arte provenienti da tutta Europa, con il prevalente contributo di Italia e Grecia. Volevo esercitarmi nella lingua inglese, ma è stato difficile: dappertutto incontravo ragazzi italiani, perfettamente bilingui, che erano felici di parlare con me nella lingua di Dante. Ma anche nella Tate Gallery, che è dedicata ai soli pittori inglesi, alcuni quadri dei preraffaelliti e molti disegni di Blake proprio a Dante si ispirano. Nella zona di Westminster, molte statue sono state erette per onorare grandi personaggi del loro recente passato: usanza inventata dall’antica Grecia e diffusa dall’antica Roma, che i britannici continuano a praticare. Mi sembrava evidente che, a dispetto della Manica, il Regno Unito non fosse proprio un’isola separata dal resto d’Europa. Vi sono  radici culturali e storiche, e legami indissolubili con gli altri popoli con cui in passato si sono mescolati, come i Romani (dall’Italia e da tutto il mediterraneo, vista l’estensione dell’impero), i Sassoni (dalla Germania) e i Normanni (dalla Francia): quel popolo non sarebbe quello che è, senza queste contaminazioni. No, non si tratta di un’isola, ma di un pezzo d’Europa, che è nella loro cultura e nel loro sangue.

La stessa sensazione di comunanza si ha visitando Parigi, dove – volendo tralasciare le grandi opere del passato per limitarci all’epoca moderna – il Centro nazionaled’arte e di cultura (il Beaubourg) è stato progettato da un italiano (Renzo Piano); e la splendida trasformazione della vecchia stazione d’Orsay in Museo dedicato all’arte francese è opera di un’italiana (Gae Aulenti). E in questo museo sono conservati alcuni capolavori di Rodin, ispirati all’opera di Dante; e in Francia c’è il più bel ponte romano (pardon, gallo-romano) d’Europa, il Pont du Gard; e un anfiteatro, ad Arles, in cui dopo duemila anni ancora si fa spettacolo.

Poche settimane fa, mi è capitato di andare a Palermo. Tra le altre cose, ho visitato il Palazzo dei Normanni. Non ci si pensa mai, che questo popolo nordico (i normanni, ovviamente) sia stato così presente, ed egualmente importante, in tanta parte d’Europa (Francia, Gran Bretagna ed Italia, oltre a Scandinavia e Danimarca) mostrando a tanti moderni idioti quante siano le cose in comune nel nostro continente. Partiti come conquistatori, si sono abbeverati alle culture locali, ed hanno messo in comunicazione paesi lontani.

Ma le radici comuni sono così tante! Non sappiamo bene quali fossero i contatti nella preistoria, ma lo studio del DNA ha dimostrato una profonda e antichissima commistione tra gli europei, frutto dell’incontro di genti diverse fin dalla notte lontana delle ere glaciali. Ma poi la Grecia ha colonizzato le coste europee del mediterraneo portando manufatti e cultura; e un’arte ancora imitata (quale città europea non ha colonne doriche o corinzie nei suoi palazzi?), e la razionalità della geometria, e il moderno pensiero critico.

Roma ha ha contribuito non poco ad unire i popoli del continente. Duemila anni fa si poteva viaggiare dappertutto in Europa usando la stessa moneta e parlando la stessa lingua, camminando sulle stesse strade, attraversando gli stessi ponti, bagnandosi alle stesse terme, andando agli stessi teatri e bevendo l’acqua degli stessi acquedotti. Ma perché oggi non si dovrebbe? Quale ignoranza, quale egoismo, quale miopia ce lo impediscono?

Sono troppe le cose che stiamo cercando di dimenticare, nell’intento di venire “prima” degli altri e di affermare una supposta sovranità.

Ma l’Europa esiste da secoli e secoli, ed ha la fortuna e il privilegio di essere un’unica terra “di mezzo” sempre in osmosi con altre terre. Se oggi possiamo usare un computer, lo dobbiamo agli arabi, che hanno importato dal lontano oriente lo zero, senza il quale non esisterebbe il linguaggio binario (0-1) che lo fa funzionare. Se possiamo navigare in internet lo dobbiamo a un persiano (Muḥammad ibn Mūsā al-Ḫwārizmī) che viveva nella Baghdad delle mille e una notte, e che ha inventato gli algoritmi. Ma anche quella non era tutta farina del suo sacco, perché lui si era formato sulle principali opere matematiche del periodo greco-ellenistico, dell’antica Persia, di Babilonia e dell’India.

Se abbiamo una scienza moderna lo dobbiamo anche a un geniale nord-europeo (Federico II) che ha fatto incontrare oriente e occidente in Sicilia, creando un crogiuolo dove il pisano Fibonacci ha preparato la matematica moderna. Ma qualcuno ci pensa che l’informatica non ci sarebbe senza queste premesse? Che il CERN di Ginevra non sarebbe mai nato? Che le separazioni e le chiusure servono solo a morire?

È pur vero che, nel corso dei secoli, i Paesi europei sono stati spesso in guerra tra loro: fratelli coltelli, come dice il proverbio. Ma è altrettanto vero che proprio per impedirlo è nato il progetto di un’Europa unita: progetto che non pretende di fare cosa nuova, ma di attuare, più semplicemente ciò che è già nella cultura e, materialmente, nel  DNA (un tempo si sarebbe detto: nel sangue) degli europei. Tutto il resto è solo bassa politica, miopia di chi cerca di arraffare (magari, purtroppo, riuscendoci) qualche voto in più.

A fronte di questa realtà, che qualunque turista può scoprire in un viaggio di piacere, e qualunque curioso può trovare nei libri di storia o di genetica umana, l’idea della brexit mi dà i brividi, non meno delle nostrane polemiche anti-francesi, anti-tedesche e anti-europee. Si è fatto strada, quasi insensibilmente, un linguaggio d’altri tempi, che non ci fa per niente onore. Un linguaggio che rivela come il fine di una certa politica sia l’opposizione di per se stessa, la lite, per non dire la rissa; e che l’apparente e sbandierata coerenza di chi dice di voler rispettare le promesse elettorali sia i realtà l’incoerenza di chi non ha memoria storica. Anche perché non è possibile cambiare nulla se si offende chi deve collaborare al cambiamento, se si cercano nemici più che alleati, se non si accetta il difficile lavoro della negoziazione. È vero che gli slogan sono più a buon mercato e rendono bene elettoralmente; ma è anche vero che sono inutili di fronte alla storia, come ha ampiamente dimostrato un populista del passato, che sparava slogan (“Un’ora segnata dal destino batte nel cielo…”, “la parola d’ordine… è vincere, e vinceremo”) mentre, applaudito dalla folla, mandava tanti italiani a morire in guerra.

Ma forse, quel che più indigna nei discorsi dei cosiddetti euroscettici, è la superficialità con cui propugano la difesa della “sovranità”, dimenticando che la bellezza del progetto europeo consiste proprio nella rinuncia a una parte di sovranità: senza di questo non c’è sviluppo verso quell’europa politica, più che economica, che  dicono di volere. Ma anche da un punto di vista strettamente pragmatico, è meglio perseguire gli interessi comuni, che litigare per confliggenti interessi individuali, condannandosi all’isolamento ed all’irrilevanza economica e politica. E dimenticando che l’unica difesa contro le possibili prevaricazioni di qualche partner è proprio fare quello che gli euroscettici nostrani non hanno mai fatto. Prima di tutto essere presenti e attivi nelle istituzioni comunitarie, anziché brillare per l’assenteismo. In secondo luogo avere l’indipendenza che proviene da un’economia salda, finalmente libera dal peso e dalla vulnerabilità di un debito eccessivo. In terzo, avere la credibilità di chi non tradisce gli impegni dello Stato, perché presi da un altro governo. Il rispetto non viene dai pugni sul tavolo, ma dal saper fare politica.

di Cesare Pirozzi

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