Una questione di vita o di morte
Cosa hanno in comune le due recenti vicende assurte alla ribalta delle cronache: sto parlando del discusso concorso al San Camillo di Roma, con l’assunzione di due medici ‘non obiettori’ e il caso di DJ Fabo– paralizzato a letto, a seguito di un incidente – e la sua eutanasia in una clinica Svizzera?
Al di là del loro specifico ‘clinico’ – il fatto cioè di essere entrambi episodi legati all’organizzazione del nostro Sistema Sanitario Nazionale e alla presenza di medici ‘mediatori’– sono entrambe vicende che ci obbligano a rivolgere lo sguardo, e a tener fermo il pensiero, su temi enormi, quali la ‘vita’ e la ‘morte’, seguendone iI complesso passaggio da una dimensione ‘privata’ a quella ‘pubblica’.
Ed è proprio nel passaggio da ‘privato’ a ‘pubblico’ – la scelta personale del medico di configurarsi ‘non obiettore’ e quella di DJ Fabo di determinare la propria morte fisica, avvalendosi di medici – che entrambe le vicende rischiano di farsi ‘politiche’, con indebite intrusioni in una dimensione etica ache dovrebbe restare personale.
Non più solo, e semplicemente, ‘vita’ o ‘morte’: entrambe le vicende schiudono un orizzonte etico per il quale sarebbe più corretto – ma più difficile, quasi che il loro significato improvvisamente si insabbiasse – parlare ‘del vivere’ e ‘del morire’. Quanto sarebbe più opportuno parlare del vivere e del morire per ciascuno.
Invece, si passa da un piano personale a quello etico – ad uno stile di vita che adotta uno specifico riferimento a proposito del vivere e del morire – e immancabilmente si finisce per sconfinare in una querelle ‘politica’, con la legittimazione o la condanna pubblica di circostanze private, quando ciò che serve è la legittimazione pubblica di chi – tertium, il medico – ha solo la responsabilità di porre in essere tali scelte soggettive.
Il punto del vivere e del morire che produce nella nostra società un continuo cortocircuito – si pensi ai casi Englaro o Welby con le stesse ingerenze della Cei, espresse immancabilmente anche nel caso del San Camillo – sta nell’apparente paradosso per cui ‘vivere’ e ‘morire’, a volte, non possono più essere espressione di una libertà individuale, quando cioè non si è in condizioni di esercitarne liberamente la scelta, e per farlo dobbiamo ricorrere ad un terzo ‘attore’ che tale scelta ponga in essere.
E’ qui, sul limite sacro e ineffabile della libertà come diritto e non solo come mera possibilità, che la politica rischia di confondersi, facendo di un atto private che pur necessita di un passaggio pubblico – di una intermediazione – una questione ‘etica’ collettiva.
Come se non ci fosse altra e più importante ‘dimensione’ – quella del diritto, appunto – da cui derivare anche un’etica e una politica del ‘Diritto’, le sole che possano garantire la tenuta del rapporto tra pubblico e private, ovvero la tenuta comunitaria.
Questione di vita e di morte è, allora, la capacità di fermarsi e, se serve, di fare un passo indietro da parte della politica – ciò che non ha Saputo fare il Ministro Lorenzin – nel rispetto di un diritto come quello dell’interruzione di gravidanza che – muovendo da un’istanza soggettiva – non può che fondarsi sull’assunzione di una responsabilità pubblica da parte del medico. Medico che non può mancare ove previsto dalla legge, anche a fronte di una sensibilità etica e orientamenti collettivi diversi.
Lo stesso dicasi dell’ipocrisia messa in scena in occasione della scelta di quanti – Welby, Coscioni, DJ Fabo – decidono di giudicare insopportabili la proprie condizioni di vita e vogliano ricorrere all’eutanasia.
Sono liberi di farlo, basta che si possa distogliere lo sguardo sulla loro scelta. Basta che lo facciano a spese loro, lontani e reitti – anche se appena al di là del confine – senza riconoscimenti e, soprattutto, senza diritto.
Come se assumersi la responsabilità di rispondere ad una esigenza personale insindacabile – come quella di giudicare non vita, la vita che si è costretti a vivere – prima che un diritto non debba essere un dovere. Il più laico ed emancipato dei doveri, in un mondo percorso da pericolose derive confessionali.
di Luca De Risi