Atto unico. Cercasi cercasi … forse trovasi lavoro.
Entro nella stanza, dopo esser salita per quattro piani, un centinaio di gradini, con un tacco dieci che mi sta facendo precipitare in Inferno per le eleganti parole che ogni passo mi suscita. E dovrò pure scenderle di nuovo, sulla punta dei miei piedi. Respiro, no, sospiro. E’ un colloquio di lavoro quello che mi aspetta. Non è il primo. Nei precedenti ho puntato sulla mia empatia, sulla preparazione, sulla conoscenza di un paio di lingue. Oggi non lo so. Improvviserò, se ritrovo il respiro. Non ho neanche il tempo di sedermi e recuperare che sento una voce alle mie spalle: “Signora Dodici?” (lo so, non ditemi niente, è un cognome che ti fa pensare subito ai primi undici che mi hanno preceduta e al tredicesimo non pervenuto).
Annuisco. Il “si accomodi, prego. La stanno attendendo” mi arriva sulle gambe come una falce. Resto però in piedi e avanzo.
Altra stanza. In fondo, controluce, una scrivania con dietro un’ombra di cui non distinguo i tratti. Dicono che occorra camminare in modo deciso, per dare idea di sicurezza e intraprendenza. Le mie gambe hanno deciso che quel posto non deve essere mio. Liquefatte…mi sento un budino.
Arrivo finalmente al patibolo. Tengo a questa possibilità di lavoro ma mi aspetto la solita sfilza di domande volte a mettere in evidenza che essendo donna, futura possibile madre, non sono la “figura professionale che stiamo cercando”. Eppure anche una donna ha la necessità di nutrirsi, vestirsi, pagare il condominio. E non è detto che abbia voglia di farsi mantenere da qualcuno. E non è una colpa non averne voglia. Ecco…adesso questi pensieri mi hanno sufficientemente fatto arrabbiare internamente. Vinco io sulla liquefazione delle gambe.
Allungo la mano in un gesto di saluto. Stretta forte, rapida. L’uomo seduto al di là della scrivania mi sorride. “Sara Dodici, piacere”. Il suo sguardo va all’orologio che tiene al polso. Trattiene una battuta, la solita, dopo aver capito che Dodici è il mio cognome. E Sara il mio nome. Non potete capire quante volte mi hanno chiesto se ero sicura dell’orario. E ancora oggi, se me lo ripetono, per non deludere il prossimo rido. Oggi però la battuta non arriva. Per un attimo penso di avere davanti un uomo dotato di un sano intelletto.
“Dodici, ma noi cerchiamo una persona sola!”. Sorride in attesa della mia servile risata. Annuisco con la faccia più simpatica che riesco a fare. “ In effetti faccio per dodici!”. Anni di allenamento al cognome mi permettono di trovare, ogni tanto, qualche risposta decente.
I suoi occhi nel frattempo mi hanno radiografata fino alle mutande. Probabilmente sa anche il nome della mia estetista. Niente da fare, penso, nelle mutande manca quell’ammennicolo necessario per trovare posto più facilmente nel mondo. Se non sei wonder woman e sei semplicemente una donna intelligente ti manca per essere lavorativamente appetibile l’essere un uomo.
Tre, quattro domande su lavori svolti in precedenza, un paio sui titoli. Poi arriva lei, la Domandona per eccellenza. “E’ sposata? Convive? Ha figli?”. E, stoccata finale, “Ne vuole?”. Stavolta mi sono proprio rotta le palle (pure quelle a prestito dagli uomini). Attacco. “Non mi interessa. Voglio lavorare. Voglio essere indipendente. Cerco un uomo che si faccia ingravidare al posto mio, anzi, se ne conosce uno me lo presenti. Che lo lasciamo a casa per nove mesi”. Mi guarda perplesso. Sembra non capire il mio stato di acidità permanente. Non l’ho fatto arrivare alla battuta dei dodici figli o del tredici che porta bene. Vedo lo sgomento per l’ovvietà mancata, dipingersi sul suo volto.
“So lavorare. Sono brava, preparata, disposta a fare sacrifici, disposta a imparare un nuovo lavoro, questo lavoro, che mi attrae per il suo lato creativo. Non potete chiedermi ancora se voglio figli, se questo mi condiziona, non potete non valutare che ho tutti i titoli giusti per la figura che cercate. O vi interesso e non ve ne frega niente dei miei eventuali futuri figli , oppure no”.
Le gambe si sono liquefatte di nuovo. Ho le guance rosse, il fiato corto e probabilmente i capelli ritti in testa. E l’aria acida.
L’uomo mi guarda, perplesso. Il suo neurone perplesso sta valutando.
Stranamente mi sorride. Ha il neurone femminista?
“Credo che lei sia quella che stiamo cercando. Ci occorre un tipo determinato, deciso a lottare per i suoi diritti. Pronto ad affrontare alcune difficoltà. Lei ci sta bene”.
Scendo le scale sul tacco dieci come se avessi le scarpe da ginnastica. Il posto è mio. Da domani sarò la nuova baby sitter dei pargoli del capo. Certo la mia laurea e le due lingue cha parlo non serviranno, ma almeno mangerò.
di Patrizia Vindigni