Ogni giorno nuove “morti bianche”

L’amara conferma che i morti non sono tutti uguali

Di solito le notizie sui morti sul lavoro si riducono a scarni trafiletti di cronaca che vengono accettati con sufficienza e fatalismo, dal distratto lettore, che commenta interiormente, un po’ contrito, con un “Eh, succede…!”, magari prima di passare al gossip, o allo sport. Probabilmente così è stato per l’operaio morto a fine luglio nel bergamasco in una ditta di prefabbricati, schiacciato da un carrello per il trasporto di materiali, o per il piccolo imprenditore morto ai primi di agosto mentre lavorava coi suoi operai, oppure, solo pochi giorni fa, per un altro lavoratore ucciso dal ribaltamento di un tritarifiuti. Non sempre gli occhi del lettore arrivano a posarsi sui trafiletti e non sempre le morti sul lavoro, assurgono al rango di “notizia” e vengono riportate: “morti bianche” le chiamano, quasi a volerle mimetizzare meglio, quasi ad indurre a dimenticarle in fretta. Non è così per uno sportivo che muoia durante una competizione (in fondo si tratta lo stesso di una morte sul lavoro, no?): grazie alla sua notorietà, magari troviamo pagine e pagine di notizie, lunghi e malinconici servizi sui tiggì, con le immagini dei fiumi di fiori lasciati dai suoi fans, a testimonianza della collettiva partecipazione emotiva alla grande perdita. Ma per un operaio che si alzi a notte fonda, per portare alla famiglia un migliaio di euro di malpagato stipendio e che muoia mentre lavori, con o senza misure di sicurezza, tra gli articoli, o i servizi, ci sarà spazio solo per necessità “riempitive”, cioè quando manchino “vere notizie”.
Secondo fonti INAIL, lo scorso anno sono morti 618 lavoratori (di cui il 54% fuori dall’azienda), un dato che di per se stesso sarebbe positivo, poiché rappresenta un minimo dal 2008, ma che è comunque troppo alto per un paese teoricamente avanzato, come l’Italia. E tutto questo senza contare le 60 mila denunce per malattia (in crescita di 1300 casi), di cui 1297 casi riconosciuti legati alla professionalità. Il solo dato sugli incidenti mortali, sommariamente indica come in media muoiano quasi due lavoratori al giorno. Ma di questi 618 morti, quanti sono stati raccontati, quanti hanno avuto ampi servizi o lunghi articoli, quanti hanno suscitato commozione e indignazione?
Quanti sanno del 50 enne Giuseppe Bonincontro, operaio della forestale morto nel suo letto l’11 agosto, dopo avere duramente lavorato allo spegnimento dell’incendio dei boschi di Piazza Armerina? Quanti hanno sentito raccontare della morte del 51 enne Salvatore Matera, che il 28 luglio ad Andria è precipitato da una scala e che è giunto morto in ospedale, malgrado il tentativo disperato dei colleghi di salvarlo? Quanti di noi hanno memoria del 52 enne Massimo Riminucci che il 21 luglio a Caprizzino di Sassocorvaro è deceduto per il ribaltamento del trattore, mentre stava arando un terreno scosceso? E storie come loro, ce ne sono tutti i giorni, in tanti posti di lavoro, in tante parti d’Italia molto. Ma gli unici che ricorderanno i loro nomi sono gli amici, i colleghi ed i famigliari che non li vedranno rincasare: il dolore delle “morti bianche” normalmente è un fatto privato.
L’amara verità è che i morti non sono tutti uguali, perché al di là delle dichiarazioni universali sull’umanità, nella realtà non c’è uguaglianza nemmeno nella morte: in questa società in cui la notorietà è potere (mediatico), obbiettivamente conta più un vip morto, che centinaia di muratori che cadono da un’impalcatura, o delle centinaia di operai che perdono la vita schiacciati, asfissiati, bruciati vivi, folgorati. Vanno diminuendo i morti sul lavoro, ma restano comunque troppi, perché se ne parla troppo poco per suscitare quell’indignazione che accenda una mobilitazione di massa, per l’adozione di nuove misure utili a porre fine a questa quotidiana mattanza.

di Mario Guido Faloci

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