Cultura ed economia, la sfida catalana a Madrid

Alle finestre e sui balconi di Barcellona sventolano fiere le esteladas. Le bandiere della Catalogna, sfondo a strisce gialle e rosse, con uno spicchio blu e una stella bianca al centro. Dicono rappresenti il cielo dell’umanità e il desiderio della gente catalana di decidere, in modo libero e indipendente, il proprio futuro.
Vicino a loro un altro striscione, ai vetri delle finestre così come adesivo sparso per la città. Un “Sí” scritto dentro una nuvoletta da fumetto. È la risposta ad una domanda precisa. Che tre anni fa recitava così: “Vuole che la Catalogna sia uno Stato?” e “In caso affermativo, vuole che questo Stato sia indipendente?”.
Era il 2014, l’allora presidente della Generalitat di Catalogna Artur Mas, con il sostegno di oltre la metà del Parlamento della Catalogna, fissava per il 9 novembre la data del referendum. A marzo arriva lo stop del Tribunale Costituzionale, ma le votazioni avvengono lo stesso, anche solo per valenza simbolica. Alle urne si reca il 35,9 % degli aventi diritto e l’80,72 % dei votanti si esprime per la piena indipendenza.

Oggi la storia è quasi la stessa. A giugno Carles Puigdemont annuncia il referendum sull’indipendenza il 1 ottobre 2017 ma il 7 settembre arriva la sentenza del Tribunale Costituzionale che sospende nuovamente le procedure, dichiarandole illegittime. Accogliendo così il ricorso d’urgenza del premier spagnolo Mariano Rajoy, che si dice “pronto a tutto pur di fermare la separazione”. La Consulta Iberica ha infatti comunicato ai 947 sindaci catalani, che avrebbero dovuto fornire i seggi per le votazioni, di non partecipare in alcun modo all’organizzazione illegale del voto. Ma non solo, il Procuratore generale dello Stato José Manuel Maza ha denunciato Puigdemont e i ministri “per disobbedienza, abuso di potere e malversazione di danaro pubblico”.

Il braccio di ferro tra Barcellona e Madrid continua. Mentre è stata aumentata la presenza della Guardia Civil nella regione, con perquisizioni nelle tipografie e nelle sezioni di partito che appoggiano il referendum.
“Noi vogliamo solo la libertà di esprimerci – scriveva Artur Mas sul New York Times, nel 2013 – Tutti gli individui dovrebbero aspettarsi questo diritto dal loro governo. In Europa i conflitti si risolvono democraticamente ed questo quello che chiediamo. La Catalogna riceve meno pro capite in servizi rispetto a più della metà delle altre regioni spagnole, anche se paga tasse più alte degli altri. In più, il governo spagnolo non ha rispettato i suoi impegni di investimento sul territorio”
Non solo motivi storici e culturali, ma anche, e soprattutto, economici. Una regione che da sola rappresenta il 25% dell’export spagnolo, con i dati sull’occupazione più alti della nazione, con un reddito pro capite maggiore. E che adesso vuole viaggiare in solitaria. Al grido di: “Som una naciò. Nostaltres decidim”. Ovviamente in catalano.

di Lamberto Rinaldi

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