Grazia Scimé: la donna che morì in piazza, uccisa dalla mafia

Ci sono angoli della Terra in cui non è possibile andare al mercato senza rischiare di perdere la vita. Correva l’anno 1988, era il 12 settembre, quando Grazia Scimé decise di andare al mercato in piazza Salandra, a Gela. Forse un’amica l’ha chiamata e le ha chiesto di raggiungerla, o si è resa conto di aver finito qualcosa che le serviva per il pranzo: devono essere stati questi i motivi che l’hanno spinta a compiere quelli che lei non sapeva essere i suoi ultimi gesti. Grazia era una casalinga siciliana di 56 anni, una donna del popolo.

Se è facile immaginare come possono essere andate le cose, non deve essere stato altrettanto semplice spiegare ai familiari come sia stato possibile che Grazia sia morta comprando frutta al mercato. La risposta è come sempre una sola: mafia.

Dall’inizio del 1988 al giorno in cui Grazia la perso la vita erano stati registrati 17 morti e 38 tentati omicidi. Due settimane prima della morte di Grazia, in quella stessa piazza, c’era stata un’altra sparatoria contro due componenti della famiglia Lo Grasso.

Quel 12 settembre dei killer montano su una Vespa e si dirigono in piazza Salandra, alla ricerca di Giuseppe Nicastro, mafioso di 36 anni. L’obiettivo è ucciderlo, perché a Gela in quegli anni impera una guerra di mafia tra i “Stidda” e Cosa Nostra. Sparano all’impazzata sulla folla e quando il sipario cala, dopo i sicari sono ripartiti indisturbati sul loro motorino, giacciono a terra cinque persone: Grazia, Concetta, Saveria, Antonella e ovviamente Giuseppe Nicastro.

Due di loro sono gravi, ma mai come Grazia che viene subito portata all’ospedale “Vittorio Emanuele” di Gela e poi trasferita d’urgenza a Catania dove, poche ore dopo l’arrivo, la donna muore. Al contrario, il pregiudicato Giuseppe Nicastro quella volta se la cavò.

In quella piazza, su cui si affaccia un convento di frati agostiniani e il teatro comunale “Eschilo”, il mercato non si fa più. In onore di Grazia Scimé fu posta una targa sulle mura del teatro, poi rimossa per lavori di ristrutturazione e mai rimessa. Nel 2013 degli ignoti posarono un’altra targa vicino ad un albero della piazza: “Gela piange vittime innocenti”. Firmato: “un cittadino gelese”. Due anni prima, nel 2011, era stato condannato all’ergastolo, in Corte d’Assise d’appello di Caltanissetta, il boss gelese Alessandro Emmanuello.
Una targa a cui hanno dovuto provvedere i cittadini e addirittura una condanna all’ergastolo, questa volta non hanno il sapore di giustizia, perché non può esserci pace davanti una vita che si spegne comprando frutta, nell’omertà di una terra che muore da sempre, dietro i suoi stessi mali.

di Irene Tirnero

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