Educazione in Italia. Riflessioni sullo stato dell’istruzione nel nostro paese
Di fronte alla questione se il sistema dell’educazione e dell’istruzione italiana funzioni o meno, bisognerebbe partire dalla domanda: a cosa serve tale istituzione? Due possibili ed estremamente sintetiche risposte potrebbero essere (almeno per quanto riguarda l’istruzione di ordine superiore): serve a creare un individuo capace di inserirsi nel tessuto lavorativo, quindi a fini essenzialmente pratici. Saremmo in tal caso di fronte ad un sostanziale quanto catastrofico fallimento. La seconda, al contrario, potrebbe essere: serve a sé stessa, al sapere per il sapere, a creare un individuo padrone dei frutti della cultura, della storia e della tecnica espressi (almeno) dalla propria società. Ebbene anche qui, sebbene sia mediamente diffuso il pensiero contrario, siamo irrimediabilmente carenti. Basti prendere in considerazione i dati dei test cross-nazionali a fascia di età che, per quanto non siano il migliore dei metodi possibili, ci dicono comunque che non siamo dotati di questo sapere esteso tanto quanto pensiamo.
Ad ogni modo, entrambe queste risposte erano in sostanza sbagliate. E non perché abbiano portato a conclusioni negative, ma perché il sistema educativo e di istruzione, sebbene non ci sia a tal proposito una verità assoluta, non è a questo che dovrebbe servire. Non è pensabile che l’istruzione possa essere limitata, nelle sue funzioni, ad un mero e narcisistico solipsismo intellettuale, staccato dalle altre realtà della società. Né è auspicabile (sebbene il mondo ce ne presenti esempi concreti) che questa sia totalmente asservita alle leggi del mercato e al puro pragmatismo professionale. Oltre al fatto che, pure fosse, in entrambi i casi il nostro sistema appare piegato in sé stesso, chiuso in entrambe le direzioni, e pare trarre la sua ragion d’essere non da necessità estrinseche quanto da un intrinseco e intoccabile statuto ontologico che si giustifica da solo.
Prima di tentare di avvicinarci a una possibile risposta alla domanda originaria, c’è ancora un altro aspetto da prendere in considerazione, un altro mito da sfatare. Di fronte alla frustrazione derivata dall’apparente fallimento nell’attribuire un significato a tale realtà ma soprattutto di dare un senso al proprio percorso ed inserirsi, fatto inevitabile, nel mondo professionale, quindi di trovare una sintesi ai due approcci di cui sopra, sappiamo che il risultato è stato costante nell’ultimo decennio: da un lato, il tentativo di terminare al più presto il percorso, vedi il bassissimo numero non solo dei laureati in Italia, quasi il più basso d’Europa, ma in generale di chi si spinge oltre il limite dell’obbligo; dall’altro, emigrare. Studiare o fare ricerca all’estero, oppure terminare qui il percorso e spendere tutto ciò che si è riusciti a prendere in un luogo ove questo sia almeno preso in considerazione, se non valorizzato.
E qui spunta fuori il mito: lontano da qui siamo i più preparati, i nostri ricercatori sono i migliori e compaiono in ogni gruppo di ricerca di cui si sente notizia al telegiornale. Ma questa è una reazione d’orgoglio consolatrice, qualcosa che ci raccontiamo per farci forza e poterci aggrappare al pensiero che ciò che stiamo facendo non è del tutto inutile, che è il sistema ad essere inefficiente, che è il mercato del lavoro ad essere saturo. La parte di verità in questo, purtroppo, è davvero esigua, e la realtà è che sì, siamo mediamente in possesso di un sapere più esteso e a volte più solido, ma non è per questo che fuori abbiamo successo. Abbiamo successo perché è il sistema dell’università, della ricerca, dei finanziamenti e dei servizi che è valorizzato, reso funzionale, messo al servizio delle necessità di tutto il resto della macchina, quindi abbiamo successo come qualsiasi altro ricercatore di qualsiasi altra nazionalità. È il sistema che funziona. Chi di noi va fuori deve sforzarsi di cambiare, adeguarsi, rimettersi in gioco da capo perché poco o nulla di ciò che gli è stato insegnato in patria sarà già pronto per essere speso, lì. E questo è qualcosa che non tutti possono permettersi. Gli sforzi dell’istruzione pubblica non bastano, ed entra in gioco lo sforzo personale, familiare, ambientale di chi può permettersi di avere modo e tempi di cambiare ed adeguarsi, di coloro i quali hanno potuto già da prima respirare l’aria di un contesto internazionale e fare esperienze all’estero, di affinare l’uso dell’inglese con i viaggi studio e via discorrendo. Pensiamo che gli italiani abbiano successo fuori, perché i notiziari drizzano le orecchie ogni qual volta ci sia un italiano coinvolto in qualche scoperta, ma questa è solo una parte del tutto. È un filtraggio che crea distorsioni nella percezione.
Occorrerebbe dunque adeguare il sistema d’istruzione fin dal principio, così da non sprecare le forze lungo il percorso e mettere tutti nelle condizioni di essere più adatti e competitivi per il nuovo sistema globale? È un’ipotesi, ma continua a non convincermi il modello di un’istruzione resa produttiva a tutti i costi, asservita al modello capitalista e ben inserita nelle regole del neoliberismo. Per quanto poco spendibile, il nostro sistema antiquato continua a rappresentare, senza volerlo del tutto, un esempio di resistenza al modello egemone, e non è un male. Ciò che fuor d’Italia è apprezzabile, allo stesso tempo, è la continua messa in discussione del metodo, e l’utilizzo delle teorie più recenti e all’avanguardia in campo cognitivo e pedagogico. Non ci siamo spinti molto oltre rispetto alla lectio di stampo aristotelico, e dalle scuole medie inferiori fino all’università compresa, tutti i nostri sforzi sono rivolti all’accumulo mnemonico, spesso ripetitivo, di informazioni su informazioni. Il professore è l’auctoritas che trasmette il sapere, e lo studente non è mai spronato ad acquisire un pensiero critico, bombardato su tutti i fronti da informazioni delle quali spesso non sa cosa farne, separato com’è dalla contingenza e praticità di cui ogni disciplina, anche la più simbolica e teorica possibile, è comunque legata.
Ogni riforma a riguardo, e ce n’è una ogni anno, è servita finora in sostanza a far quadrare i conti. C’è bisogno di una riforma strutturale che riveda il sistema in modo radicale.
di Simone Cerulli