Detroit: il cinema e le viscere nascoste del razzismo

Un film non è solo un fatto d’arte, ma anche un artefatto economico, tecnico, operativo. Nel 2016, l’anno in cui Katryn Bigelow doveva iniziare le riprese del suo film Detroit, lo Stato del Michigan aveva cancellato gli incentivi fiscali per le produzioni cinematografiche. Così la regista si vide sfilata da sotto i piedi proprio la città capitale di quello Stato dove i fatti narrati erano realmente accaduti. Dovette ripiegare sui dintorni a nord di Boston, nello Stato del Massachusetts, dove quegli incentivi erano riconosciuti. I race riots, ossia i disordini, la rivolta dei ghetti neri di Detroit dal 23 al 27 luglio 1967 è una delle pagine di storia più conosciute e documentate della storia americana della seconda metà del secolo scorso. Molto meno fuori degli Stati Uniti. 43 morti, 1189 feriti, 7200 arresti, oltre 2000 edifici andati in fiamme, in pezzi.

Uno dei problemi della Bigelow era allora ricostruire il più fedelmente possibile l’ampia, caotica e cruenta scena dei fatti. Ricostruire non solo una fedeltà urbana esteriore, ma anche una umana interiore. Per questo ha selezionato e preparato attrici e attori attraverso una sorta di lungo workshop, basato sulla reazione a situazioni emotive estreme e a una conseguente improvvisazione recitativa. Voleva che gli attori scaraventassero sulla scena non solo la loro abilità tecnica ma innanzitutto le loro più profonde budella emozionali. Il costo finale del film è stato di 34 milioni di dollari, prevalentemente spesi – come detto – in una fedeltà ricostruttiva ambientale e umana che permettesse all’autrice di mostrare anche essa le viscere, le radici autentiche di quella pagina di macelleria razziale compiuta a Detroit nel ’67 e tanto esteriormente ma non interiormente conosciuta in patria. Anche perché non si è arrivati mai a una verità giudiziaria, sancita da un tribunale di Stato. Soprattutto, però, perché rivolte e repressioni sanguinose continuano a ripetersi nel presente in tutti gli States, nonostante l’elezione del primo presidente di colore americano. Ossia: il film è dell’oggi e non solo, non tanto di ieri che parla.

Il film dura 143 minuti e quaranta di questi sono girati dentro la ricostruzione del Motel Algiers, nel quale si verificano gli atti più efferati da parte della Polizia e della Guardia Civile, inviata dal presidente Lyndon B. Jhonson insieme all’esercito per domare la rivolta nera. La regista è stata criticata proprio per questi 40 minuti. Essi sarebbero un vero e proprio film – di genere horror – dentro la cornice del film di genere storico-sociale e deviando così il carattere politico più vero. Anzi c’è chi ha scritto in America che quei quaranta minuti siano pura “torture porn”, ossia porno-tortura. Ma siamo sicuri sia così? La Bigelow mostra in realtà quello che di orribile avviene dietro le pareti buie del potere, come caserme, commissariati, prigioni, luoghi nascosti, occultati allo sguardo dei declamati diritti legali, democratici e costituzionali. C’è un sottosuolo dell’orrore che brulica infetto e sempre attivo sotto il testo scritto della Legge. La legge vera rimane quella della forza, della violenza più brutale per conculcare la sottomissione al potere. Con lo stesso sceneggiatore, Mark Boal, la regista lo aveva mostrato in Zero Dark Thirty, nell’ambito militare. Un sottosuolo che è anche genetico. Il climax, il vertice delle scene di tortura nel motel degli orrori è rappresentato, infatti, da due ragazze bianche che ascoltano musica, fumano spinelli e bevono con i neri. Il razzismo bianco qui emerge in tutta la sua più inattingibile visceralità animale. Non c’è potere che non sia innanzitutto dominio sulla sfera sessuale, ossia sulla sfera più intima e insieme più indifesa, più esposta all’imposizione della forza e perciò occultata. E cosa deve essere il cinema se non uno sguardo autentico proprio su quelle viscere folli che il potere intende nasconderci, ricoprendole di levigata pelle giuridica, per meglio imporre i suoi più efferati soprusi?

di Riccardo Tavani

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