Industria 4.0: la Babele del lavoro, dove si muore per cinque euro l’ora

Per il mondo del lavoro questi sono forse i tempi più cupi, almeno da quando la classe lavoratrice ha conquistato quei diritti, o presunti tali, un tempo non riconosciuti. L’inizio di questo 2018 non sembra promettere bene, anzi è stato forse la peggior partenza dell’ultimo decennio, quello della “crisi”.

Il 16 gennaio quattro operai hanno perso la vita e altri due sono rimasti intossicati sul proprio posto di lavoro, presso la fabbrica Lamina, specializzata nella lavorazione di metalli. La causa della morte è da ricollegare a un’intossicazione da azoto, sprigionatasi all’interno della vasca forno utilizzata per la lavorazione, senza che si attivasse alcuna spia in grado di lanciare un allarme. La macchina si è inceppata impedendo agli operai di proseguire nel lavoro: per non perdere tempo, non rallentare la tabella di marcia o i rigidi schemi della produttività aziendale, gli operai si saranno interpretati manutentori, l’azoto è scoppiato e le loro vite sono finite lì, così in una qualsiasi giornata lavorativa. Ora starà alle indagini accertare perché si sia originato il guasto e perché nessun allarme abbia suonato, ma intanto quattro padri di famiglia sono morti.

Due giorni dopo, il 18 gennaio, a morire è stato il 19enne Luca Lecci, rimasto incastrato in un torchio nell’azienda di famiglia, l’Elettrotecnica Lg di Rovato, Brescia. Tutto sotto gli occhi del padre. E pensare che quelli come Luca sono considerati i fortunati oggi giorno perché possono contare su un’azienda di famiglia avviata.

Ancora il 15 gennaio, nelle acciaierie Calvisano, un 59enne è stato investito da una calata riportando ustioni sul 70% del corpo.

Mentre si parla di “industria 4.0” la prima causa di morte sul lavoro è ancora il mancato rispetto delle norme di sicurezza: in 11 mesi del 2017 sono stati registrati 952 decessi sul posto di lavoro, 17 casi in più rispetto al 2016.

Davanti una panoramica del genere si è deciso di riunire un tavolo di lavoro sul modello Expo 2015. L’obiettivo è analizzare la situazione lavorativa a livello nazionale per capire su quali tipi di controlli è necessario insistere. Quello però che è veramente interessante è il modello Expo.

L’esposizione universale milanese è stata una Babele da un punto di vista lavorativo: manovalanza da tutto il mondo, ognuna secondo le proprie regole. Agenzie interinali, stage, tirocini, volontariato l’hanno fatta da padroni. I più reclutati sono stati giovani studenti per cui quella sarà stata presentata come “un’ottima opportunità” di quelle che “fanno curriculum”. Come se fare il commesso in un padiglione piuttosto che in un negozio cambiasse qualcosa.

Nota la querelle dell’agenzia interinale Man Power che aveva selezionato ben 800 persone: tutte inquadrate nella sezione commercio, a 5 euro l’ora, senza quattordicesima e con una maggiorazione nei festivi del 6% contro il 30% normalmente riconosciuto. Un contratto che la Cgil ha definito “corsaro”. Dal momento che in questo caso i riflettori erano ben puntati sulla situazione i sindacati non hanno potuto fare a meno che il loro lavoro e allora la Man Power ha annullato i precedenti contratti e stipulato dei nuovi nella sezione multiservizi.

A riflettori spenti però nessuno alza un dito pur sapendo che queste realtà sono l’ordinario per molti lavoratori. E’ diventato normale abbassare la testa o peggio ancora morire per 5 euro l’ora e a ognuno la sua scusa: per i più giovani lo specchio per le allodole è l’esperienza e la possibilità di investire nel proprio futuro, mentre le persone più adulte, padri e madri di famiglie, non hanno neanche bisogno di scuse e accettano senza troppe domande perché non hanno altra scelta.

di Irene Tinero

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