La storia di Josefa

Josefa, aggrappata a un pezzo di legno, fasciame di barcone, per due notti, è sopravvissuta, al largo delle coste libiche, in attesa di soccorsi che non arrivavano. Le navi delle ong sono bloccate nei porti, non possono, entrare per rifornirsi e non possono attraccare per sbarcare i migranti che raccolgono in mare. Josefa ha 40 anni, è fuggita da un marito violento che la picchiava perché non poteva avere figli. È partita dal Camerun, un viaggio infernale, attraverso il deserto.

Un viaggio senza fine, tra violenze di ogni genere, botte e umiliazioni, per giungere in Libia, dove la situazione è mille volte peggiore. La Libia dei lager voluti da Minniti, il ministro degli Interni del governo Gentiloni, la stessa Libia dei lager confermati e rafforzati dall’attuale ministro degli Interni Matteo Salvini, il leghista approdato al governo con il contratto firmato da Di Maio, leader del movimento cinque stelle. Cambiano i governi, non le politiche contro i migranti sempre più scacciati, non raccolti, lasciati in mezzo al mare. Josefa è stata raccolta dai volontari della ong della Open Arms, i soccorritori sono riusciti ad issarla a bordo e sdraiarla sul ponte coprendola con teli termici. Quei teli in alluminio, color argento e oro che tanto fanno contro l’ipotermia.

Il viso di Josefa è sofferente, le mani sono chiuse a pugno, le dita rattrappite per le tante ore passate dentro l’acqua. Due giorni in ammollo, aggrappata ad un pezzo di legno, vicino a lei un bambino e u a donna morti affogati. “Pas Libye, pas Libye…” continua a ripetere con un filo di voce e gli occhi sgranati dalla paura. Una preghiera per non essere riportata il Libia, una litania continua “pas Libye, pas Libye…” i soccorritori per tranquillizzarla le dicono che ora è al sicuro e nessuno la riporterà in Libia. Sul ponte della Open Arms si danno il cambio per passarle una pezza bagnata sulla fronte, sui capelli ha una polvere bianca forse di quando era rinchiusa nel lager senza potersi lavare. I volontari dicono, che se passavano ancora un paio di ore prima di raccoglierla sarebbe morta.

Quando l’hanno salvata, era allo stremo, non aveva più forza ed era disidratata e congelata. Ora la dottoressa Scaccabarozzi gli ha fatto una flebo e gli tiene la mano per aiutarla a superare lo stress e la paura. Josefa è stata bastonata, violentata e lasciata affogare. È ancora sotto shock, le pupille dilatate, due occhiaie profonde, le sue mani sono fredde, ha ancora i brividi, ma è una donna robusta e può farcela. “Siamo stati in mare due giorni, poi sono arrivati i poliziotti libici e hanno iniziato a picchiarci” poi hanno, distrutto il barcone. Tra i legni, dove era aggrappata Josefa, c’era il corpicino di un bambino che poteva avere dai tre ai cinque anni, il piccolo era tutto nudo, è morto di ipotermia, dicono i medici della Open Arms, “arrivare anche solo un’ora prima forse lo avremmo potuto salvare”.

La nave Open Arms chiede di poter sbarcare Josefa e i corpi della donna e del bambino recuperati in mare, ma per adesso tutto è bloccato, nessuno autorizza lo sbarco, i porti italiani sono chiusi per le navi delle ong. Tutto è bloccato in una serie di polemiche e cavilli e rimpalli infiniti tra i vari governi e l’Europa che inerme resta a guardare. La stessa indifferenza che ha condannato a morte il bambino senza nome, morto in mare per ipotermia, con l’unico calore freddo delle mani di Josefa che lo ha tenuto fino all’ultimo vicino a se, anche dopo morto, non lo ha lasciato andare a fondo. Il bambino senza nome di cui rimane solo il corpo e che non può sbarcare perché nessun governo, più di tutti quello italiano, vuole dargli una degna sepoltura.

di Claudio Caldarelli