Gli interrogatori al Russian compound di Gerusalemme

Nel cuore di Gerusalemme, a ridosso della Città Vecchia, sorge il Russian Compound.
Il quartiere, che comprende una grande chiesa ortodossa russa e diversi ex ostelli, fu costruito dall’ Imperial Orthodox Palestine Society nel 1864, sotto il patrocinio dello Zar, per provvedere ai bisogni dei pellegrini arrivati dall’Impero in Terra Santa.
Quando gli inglesi, nel 1917, occuparono Gerusalemme fecero del complesso il quartier generale della polizia e la sede degli interrogatori.
Anche dopo la nascita dello stato di Israele, come sanno generazioni di palestinesi, la struttura di Al Moscobiyeh è stata utilizzata a questo scopo.
Grazie ad un’inchiesta dell’Associazione per i diritti dei prigionieri e per i diritti umani (Addameer), che ha raccolto le testimonianze di 138 persone sappiamo cosa accade all’interno del Russian Compound e come vengono condotti gli interrogatori.
La stragrande maggioranza di quelli che vengono portati nel centro è arrestata senza mandato. Generalmente si viene prelevati all’alba, nella propria casa, senza sapere dove si verrà condotti. Durante il trasferimento gli arrestati vengono bendati e ammanettati e il 42,5% afferma di essere stato picchiato.
Una volta nella struttura i detenuti sono sottoposti ad un regime di isolamento, minacciati verbalmente e, quasi il 60% di loro, costretto in posizioni di stress.
Circa un terzo dei detenuti ha riferito di essere stato picchiato durante gli interrogatori e la privazione del sonno è una tecnica alla quale è sottoposto il 60% dei detenuti.
Le donne subiscono anche interrogatori di genere. Spesso, se sono madri, i bambini vengono utilizzati come strumento di pressione. Le molestie sessuali, sia fisiche che verbali, sono comuni.
Neanche i bambini non fanno eccezione quando si tratta di maltrattamenti e intimidazioni.
Alla luce dei raccolti, Addameer sostiene che durante gli interrogatori a cui l’autorità occupante sottopone individui della popolazione indigena, maltrattamenti e coercizione sono comuni e sistematici.
Quindi, richiamando la definizione di “tortura” così come stabilita dalla Convenzione contro la tortura e le pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti (qualsiasi atto in base al quale il dolore – o la sofferenza severa sia fisica che mentale – sia intenzionalmente inflitta a una persona allo scopo di ottenere informazioni o confessioni quando il dolore, o la sofferenza, è inflitto, istigata o comunque messa in pratica con il consenso, o l’acquiescenza, di un pubblico ufficiale), Addameer afferma che le forze di occupazione praticano, abitualmente, la tortura.
Su questa base, e richiamando il diritto internazionale, l’associazione lancia un appello alla comunità degli stati perché, come prevede la Convenzione di Ginevra, la forza occupante venga sanzionata per i crimini commessi contro il popolo palestinese.
Raccolta dei dati, richiamo alle convenzioni, appello al diritto internazionale: quella proposta da Addameer è una vera azione civile nonviolenta. Il mondo, se ha interesse a spezzare la spirale di odio che insanguina la regione, deve rispondere a questo appello.

di Enrico Ceci